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30 Luglio 2019 • di Carlo Clementi

L'immaterialità del distretto: una eredità da non disperdere

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Negli ultimi tempi si è molto parlato dei distretti industriali, chi lo fa con la nostalgia e chi carico di aspettative. Per chi scrive, i distretti rappresentano una opportunità strategica per l’Italia, da non smarrire. Tuttavia, per consentire che ciò avvenga, occorre da una parte, comprendere la genesi e la successiva evoluzione dei distretti, identificando gli aspetti fondanti della loro importanza, mentre dall’altra occorre promuovere una visione più strutturata delle pratiche manageriali, che consenta di riaffermare il successo delle aziende italiane mediante una gestione più consapevole delle componenti immateriali.

Forse non tutti sanno che un contributo importante alla concettualizzazione del modello di distretto industriale si deve ad un economista italiano, Giacomo Becattini. Tra i suoi meriti quello di considerare il modello di produzione distrettuale non solo da una prospettiva economica, ma anche da quella socioculturale. Il fenomeno dei distretti guadagna popolarità nell’affermazione dell’industria italiana, in quanto favorito dalla forte interrelazione territoriale e dalla reciproca influenza di aspetti sociali, politici ed economici. A creare un contesto favorevole partecipano un diffuso spirito imprenditoriale, l’ampia disponibilità di abilità tecniche, organizzative e manageriali, la flessibilità indotta da legami familiari e sociali coesi, e un consenso basato sulla relazione diretta tra individuo e comunità locale.
Il distretto diviene il laboratorio per il rafforzamento e la diffusione della cultura aziendale, ma anche l’incubatore naturale e per nuove iniziative imprenditoriali, che vanno a costituire la coerente evoluzione di un sistema di mutuo servizio, dove lo sviluppo è frutto di una crescita organica delle necessità dell’intero sistema. In quanto tale, il sistema consente la naturale promozione di realtà funzionali alle attività del distretto, e con essa, l’efficiente impiego delle risorse utili al suo sviluppo. La capacità di seguire il cambiamento, il fermento innovativo, la vitalità economica e sociale, l’elevato grado di conoscenza, rappresentano i fattori alla base del sistema di positiva competizione e di virtuosa collaborazione, che consentono una evoluzione sostenibile della dimensione distrettuale. Ne sono esempio le molteplici aziende sorte dalla mutua condivisione di idee, dalle specifiche necessità di servizio, o per consentire l’evoluzione di prodotti o miglioramenti di processo.
In questo ecosistema spontaneo di sviluppo trovano spazio aggregativo importanti risorse immateriali, rappresentate dalla capacità di adattamento e di innovazione. Queste rappresentano i reali fattori propulsivi e di resilienza del distretto industriale, sia in termini competitivi che economici. Endogene ai distretti stessi, tali risorse rafforzano quel processo di “specializzazione flessibile” delle aziende che, sin dagli inizi, ha consentito ai distretti industriali italiani di divenire credibili antagonisti a sistemi economici globali e standardizzati.
Con il tempo i vantaggi competitivi sembrano essersi ridotti. Recenti studi sullo stato dei distretti industriali in Italia nel decennio 2008-2017 evidenziano un differenziale dei ricavi esiguo, nell’ordine di un +0.5% annuo a favore dei distretti. Tuttavia, è sul versante della redditività che le aziende distrettuali non brillano, attestandosi sulla media dalle aziende esterne ai distretti. Tutto ciò rappresenta la fine di un modello di sviluppo o una inadeguatezza temporanea?
Secondo alcuni detrattori, il modello del distretto industriale non è più attuale. In un mondo sempre più digitale e tecnologico, l’ecosistema locale rappresenta un limite di cui le aziende più dinamiche tendono a far a meno. Tuttavia, questa visione non corrisponde alla realtà, poiché per la propria sostenibilità, settori altamente tecnologici risultano costituiti in forma di agglomerati in specifici distretti. Di questa tendenza ne sono esempio la Silicon Valley, l’asse Cambridge-Reading-Bristol o la Biovalley, aree in cui una amministrazione pubblica sensibile al territorio, la presenza di una managerialità diffusa e attività di innovazione hanno facilitato la genesi del distretto.
Ulteriori voci menzionano gli scarsi benefici conseguibili dall’appartenenza al distretto. Anche in questo caso la realtà le smentisce. Dall’analisi degli investimenti diretti di aziende multinazionali la localizzazione predilige aree dove la possibilità di massimizzazione dei fattori immateriali è più elevata. Aree dove l’integrazione, il coordinamento e la collaborazione di competenze tecnologiche, risorse umane qualificate, rispetto della cultura di impresa, facilità di contaminazioni inter-funzionali, e robuste reti infrastrutturali possono fare la differenza.
In questo scenario l’Italia si trova nella necessità, ma anche nelle condizioni, di poter recuperare la propria eredità dei distretti industriali, ma occorre farlo a breve e in modo adeguato.
Quanto espresso su base nazionale, ci induce a verificare la propria fondatezza anche in ambito regionale. A tale riguardo si prende ad esempio la realtà marchigiana, da tempo oppressa da fattori che ne rallentano il processo di ripresa socioeconomica. Le recenti pubblicazioni presentate sullo stato dell’economia e dell’industria marchigiana evidenziano una regione in progressivo recupero, ma ancora gravata da problemi strutturali che la collocano al di sotto della media nazionale in termini produttivi e le impediscono di recuperare la dinamicità di un tempo.
I dati di Confindustria Marche mostrano un 2018 che si è chiuso positivamente, con un saldo di +1,2% della produzione e un +1,8% dei ricavi, a conferma di una fase di graduale ripresa. Dati positivi si riscontrano anche nel tasso di occupazione che migliora del 2,5%, e nella tenuta della redditività media delle aziende locali. Anche l’artigianato e la piccola impresa, monitorate dall’Osservatorio Trend Marche, hanno fatto registrare un miglioramento dei ricavi di +0,7% nel primo semestre 2018, consolidando un trend in lenta progressione. Questi risultati incoraggiano circa il potenziale e la tenacia dell’industria marchigiana, ma tali caratteristiche potrebbero risultare ininfluenti nel processo di riposizionamento tra le regioni economicamente più dinamiche d’Italia, qualora le Marche non dovessero risolvere le tre criticità legate alla dinamica evolutiva distrettuale.
La prima criticità è posta in evidenza dalla tendenziale riduzione demografica delle imprese marchigiane. Negli ultimi dieci anni le province marchigiane hanno osservato una contrazione del numero delle aziende attive di oltre diecimila unità, associata ad una minore presenza di aziende trainanti. Nei distretti marchigiani questo fenomeno ha compromesso il ruolo di naturale incubatore per nuove iniziative imprenditoriali, finalizzate al rinnovamento e alla crescita organica dell’intero sistema. Un recente studio di Intesa-Sanpaolo evidenza gli aspetti di resilienza dei distretti, per il sostegno delle reti corte di fornitura alle realtà territoriali di piccola dimensione, o per l’aumento della popolazione industriale generata dalla contaminazione specialistica. Ne sono esempi il distretto della cosmetica, moda e design in Lombardia o della componentistica auto nel torinese, nel bresciano e in Emilia-Romagna. L’indebolimento dell’ecosistema distrettuale nelle Marche si ascrive alla sua perdita di identità, e con essa delle capacità di adattamento, di innovazione e di “specializzazione flessibile”, caratteristiche essenziali per competere in mercati contemporanei, molto più evoluti e dinamici.
La seconda criticità è legata al divario di produttività tra le imprese regionali e la media italiana, che tende ad acuirsi. Nell’ultima Classifica delle Imprese Marchigiane realizzata dalla Fondazione Merloni, il valore aggiunto per addetto delle aziende marchigiane si attesta al 70% dell’analogo dato nazionale. Tale aspetto assume connotati di difficoltà sistemica quando raffrontato al dato medio annuale dei 156 distretti italiani, in crescita del 2%, e alla spesa per investimenti delle aziende marchigiane, destinata per il 40% a impianti e macchinari per aumentare produttività ed efficienza. A sostegno della riflessione sull’adeguatezza delle decisioni di investimento operate localmente viene anche l’analisi della composizione degli investimenti nei distretti della meccanica del Nord Italia dove il 37,7% (+17% rispetto alle aziende marchigiane) è destinato a risorse immateriali, organizzazione, innovazione, sviluppo e strategia. La nuova frontiera della competitività si basa su una nuova visione del modello di business, sull’innovazione e sull’integrazione di prodotti e servizi, su network tra imprese sempre più sofisticati e relazionali, su nuove strategie di mercato aggressive ed efficaci e sulla capacità di generare e gestire nuove competenze. 
Tali considerazioni introducono la terza criticità, relativa all’andamento e alla concentrazione geografica dell’export. Le vendite effettuate all’estero, sebbene rappresentino un fattore di sostegno all’industria marchigiana con un +2,9% nel 2018, hanno registrato performance di crescita inferiori alla media nazionale e una maggiore concentrazione dei mercati di sbocco, con il 50% dei ricavi conseguiti in 6 paesi dell’EU e gli USA. Il Made in Italy esercita ancora un forte vantaggio per le esportazioni, ma occorre considerare il naturale processo di evoluzione dei mercati, il quale implica nuove strategie e servizi molto più evoluti. La complessità dei mercati all’esportazione non può essere affrontata solo in termini di innovazione di processo o di prodotto da parte di una singola azienda, ma anche mediante un rafforzamento di competenze di servizio, di collaborazione e di coordinamento all’interno di filiere più elaborate o reti intelligenti, che facilitino sviluppo, la circolazione di conoscenze e di competenze evolute.
In questo contesto anche il sistema manageriale ha una sfida epocale da raccogliere, ossia se rimanere ancorato nella propria operatività alla reiterazione e al mantenimento, oppure divenire il veicolo e lo strumento di una necessaria evoluzione di orientamenti, di cultura economica e di mercato. Già da anni le società più dinamiche a livello globale ci hanno dimostrato che il valore per il cliente non è più un elemento transattivo, ossia contenuto all’interno nel bene ceduto, ma un fattore relazionale, frutto di un processo di cogenerazione e sviluppo possibile mediante l’uso del bene o del servizio fornito. Questa prospettiva presuppone che i manager, e di conseguenza le aziende, debbano riappropriarsi della visione olistica della propria attività, dotandosi di nuovi strumenti gestionali ed organizzativi, a supporto della creazione e dello sviluppo di competenze atte a facilitare l’innovazione, la differenziazione e l’impiego strategico dell’enorme potenziale immateriale contenuto all’interno delle proprie strutture organizzative.
 
Per contatti e informazioni scrivere a: info@audentesconsulting.it
 

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