Impresa globale
24 Marzo 2013 • di Paolo Bettiol
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Con il termine “Holding” viene indicata una società controllante che possiede i titoli delle società componenti il gruppo, cioè delle sussidiarie, manifestando la sua posizione mediante la cosiddetta direzione unitaria. Con una holding, quindi, si esprime una caratteristica funzionale della società a prescindere dal tipo di società o dalla sua giurisdizione.
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Per il passato non è mai stata fornita, da parte del legislatore, una definizione di holding né a livello civilistico né tanto meno a livello fiscale, limitandosi, infatti, a fornire la nozione del rapporto di controllo e di collegamento delle società all’art. 2359 del codice civile, senza tuttavia delineare una disciplina organica del gruppo di società.
Per il momento, ci è opportuno limitarsi a osservare come l’acquisizione del controllo societario rappresenti lo strumento giuridico più ricorrente per costituire un gruppo. È, infatti, in forza di tale rapporto che la società capogruppo riesce a coordinare l’attività delle sussidiarie stabilendo una politica ed un indirizzo unitario. Il perseguimento di un fine che va oltre gli interessi di una singola società potrà comportare il sacrificio dell’interesse particolare di una collegata qualora ciò permetta il perseguimento di un fine superiore qual è l’interesse del gruppo. Del resto tale principio è stato confermato anche dalla suprema Corte di Cassazione che ha espressamente statuito la possibilità che più società organizzino la propria attività economica proiettandola verso il perseguimento di un interesse comune e ulteriore rispetto a quelli realizzabili dalla singola impresa(nota)
.
La definizione civilistica di controllo e collegamento è contenuta nell’art.2359 del codice civile.
Il rapporto di controllo sussiste se:
1. una società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria di un’altra società;
2. una società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria di un’altra società;
3. una società è sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma, si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
L’ipotesi di cui al punto 1) non presenta problemi interpretativi: è chiaro, infatti, che se un soggetto detiene la maggioranza dei voti esercitabili in assemblea può nominare il consiglio di amministrazione e gestire in questo modo l’attività aziendale.
Il secondo caso interviene quando, pur non disponendo della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea, un soggetto riesce di fatto a "pilotare" le delibere assembleari.
Il terzo punto, infine, contempla il caso di un’influenza che prescinde dall’esercizio dei diritti di voto in assemblea e che deriva da particolari situazioni di dominanza contrattuale.
Il rapporto di collegamento, secondo il Legislatore del codice, interviene allorquando una società esercita un’influenza notevole su altre società. Il codice aggiunge che l’influenza si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.
A seconda del tipo di attività svolta, la società capogruppo può assumere la figura di holding pura o di holding mista.
Nel primo caso essa svolge abitualmente le seguenti attività:
La holding mista, invece, in aggiunta svolge anche una attività industriale o commerciale.
Il gruppo può assumere diverse configurazioni a seconda che il controllo delle società sussidiarie sia diretto o indiretto: assume una struttura verticale allorquando la madre controlla direttamente una società che a sua volta ne controlla un’altra e così via.
Lo scopo fondamentale di una società holding è sicuramente la gestione e la valorizzazione delle proprie partecipazioni. Per perseguire tale obiettivo è indispensabile che la capogruppo possa trasferire flussi di reddito all’interno del gruppo e riallocare i propri investimenti con smobilizzi e nuove acquisizioni senza particolari oneri fiscali.
In sostanza, è importante che i dividendi percepiti dalle proprie controllate siano distribuiti senza applicazione di ritenute nel Paese della fonte e godano di un’esenzione fiscale in capo alla madre che li percepisce.
Nel caso in cui la holding sia a sua volta controllata da un’altra società, bisognerà fare in modo che i dividendi possano essere da questa distribuiti senza applicazione di ritenute.
Abbiamo osservato in precedenza come l’attività di gestione e di valorizzazione delle proprie partecipate possa dar luogo ad operazioni di acquisizione e/o cessione delle stesse. È chiaro che la cessione di partecipazioni, soprattutto nel caso in cui la gestione abbia comportato una reale valorizzazione delle società collegate, può dar luogo alla realizzazione di capital gain (nota)
. Un aspetto critico di una struttura holding è rappresentato proprio dal regime di tassazione dei capital gain.
È necessario osservare come la scelta del Paese ove allocare una struttura societaria dipende anche da motivi imprenditoriali, oltre che fiscali. Del resto, al fine di non cadere nella rete delle norme antielusive, è essenziale che le società di cui si sta trattando siano caratterizzate dall'“effettività” e non siano mere scatole vuote, costituite con l’unico intento di realizzare un risparmio fiscale.
Per poter comprendere appieno la disciplina fiscale delle holding estere è essenziale prendere le mosse dalla normativa nazionale.
Il Decreto Bersani-Visco del 2006 ha introdotto nel T.U.I.R. una specifica previsione anti abuso atta a colpire l’esterovestizione delle società(nota)
. La previsione contiene una presunzione relativa di residenza fiscale della società: “con questa norma si inverte di fatto l’onere della prova sul controllo estero di una società in cui operino in maniera prevalente soggetti di nazionalità e di residenza italiana. Salvo prova contraria si considerano residenti nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono partecipazioni di controllo, le società controllate anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o che siano amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.
Con l’obiettivo di dimostrare l’effettiva residenza fiscale all’estero delle società partecipate oggetto di (eventuale) verifica (ex art. 73. comma 3, T.U.I.R.) ovvero di superare la presunzione relativa di sussistenza nel territorio italiano della residenza della partecipata estera ex art. 73, comma 5-bis, T.U.I.R., dovrebbero costituire oggetto di prova:
Pertanto, oltre a dedurre elementi idonei a rappresentare l’effettiva sussistenza della sede amministrativa nel Paese di residenza, sarebbe opportuno dare evidenza degli elementi di fatto che hanno integrato gli impulsi direttivi da parte della capogruppo onde ricondurli al concetto di direzione e coordinamento del gruppo, piuttosto che al concetto di amministrazione separata di singole società del gruppo.
Il legislatore italiano, allo scopo di colpire le strutture societarie estere usate impropriamente da soggetti contribuenti italiani, ha introdotto nel nuovo comma 5-bis dell’art.73 del TUIR una presunzione in base alla quale, se vengono verificate alcune condizioni, la sede dell’amministrazione della società estera è considerata esistente nel territorio dello Stato.
La norma consente all’amministrazione finanziaria di presumere (“salvo prova contraria”) l’esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono direttamente partecipazioni di controllo in società di capitali ed enti commerciali residenti, quando, alternativamente:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione o altro organo di gestione equivalente, formato in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
La norma prevede, in definitiva, l’inversione, a carico del contribuente, dell’onere della prova, dotando l’ordinamento di uno strumento che solleva l’amministrazione finanziaria dalla necessità di provare l’effettiva sede dell’amministrazione di entità che presentano elementi di collegamento con il territorio dello Stato molteplici e significativi, ponendo un freno al fenomeno delle cosiddette esterovestizioni, consistenti nella localizzazione della residenza fiscale delle società in Stati esteri al prevalente scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali previsti dall’ordinamento di appartenenza, facendo leva sul principio della “substance over form” utilizzato in campo internazionale.
Le disposizioni in esame si applicano alle società ed enti che presentano due rilevanti e continuativi elementi di collegamento con il territorio dello Stato, in quanto:
La norma è applicabile anche nelle ipotesi in cui tra i soggetti residenti controllanti e controllati si interpongono più sub-holding estere. La presunzione di residenza in Italia della società estera che direttamente controlla la società italiana, renderà operativa, infatti, la presunzione anche per la società estera inserita nell’anello immediatamente superiore della catena societaria; quest’ultima si troverà, infatti, a controllare direttamente la sub-holding estera, considerata residente in Italia.
Ai sensi del comma 5-ter, il presupposto per la sussistenza del controllo (dei soggetti residenti sull’entità estera e di questa su società e enti residenti) – e quindi della localizzazione in Italia della sede dell’amministrazione – dovrà valutarsi con riferimento alla data di chiusura dell’esercizio della entità controllata localizzata all’estero.
Il medesimo comma precisa che, per le persone fisiche, devono essere computati anche i voti spettanti al coniuge, ai familiari entro il terzo grado e agli affini entro il secondo.
Il contribuente, per vincere la presunzione, dovrà dimostrare, con argomenti adeguati e convincenti, che la sede di direzione effettiva della società non è in Italia, bensì all’estero.
Tali argomenti e prove dovranno dimostrare che, nonostante i citati presupposti di applicabilità della norma, esistono elementi di fatto, situazioni od atti, idonei ad dimostrare un certo radicamento della direzione effettiva nello Stato estero.
Una valutazione interessante e approfondita sulla complessa fattispecie è stata fornita nella Sentenza della Commissione regionale della Lombardia, Sezione 15° nr. 76 del 4 luglio 2012 nella quale la pronuncia si riferisce all’applicazione della norma contenuta nell’art. 96 bis del T.U.I.R. non più in vigore ma che mantiene attualità per i temi affrontati, su alcuni dei quali non ci sono precedenti. L’articolo in specie, in vigore fino al 31 dicembre 2003, permetteva di far concorrere alla base imponibile IRPEG i dividendi distribuiti da società “figlie” comunitarie nella misura del 5% al posto del 40%.
Questa sentenza ha il pregio di porre alcuni paletti importanti:
L’art. 73, comma 3, del TUIR determina, sulla base della presenza alternativa di tre elementi, l’esistenza in Italia della residenza fiscale delle società. Questi elementi sono la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale dell’attività.
Generalmente si fa riferimento alla sede legale indicata nello statuto; in assenza di detta indicazione o quando la sede legale è situata all’estero, la società può comunque essere considerata fiscalmente residente se la sede amministrativa si trova nel territorio dello Stato ovvero se in Italia si svolge la gestione della società secondo quelle che sono le funzioni proprie dell’organo amministrativo.
Anche quando la sede amministrativa è posta al di fuori del confini nazionali, una società può essere considerata residente se in Italia si trova l’oggetto principale della sua attività, che si desume da quanto indicato nell’atto costitutivo o dall’attività effettivamente esercitata.
Dei tre criteri qui illustrati sull’esistenza della residenza fiscale in Italia delle società, quelli di immediata e più facile determinazione risultano senza dubbio la sede legale e l’oggetto principale dell’attività: molto più complessa potrebbe risultare l’identificazione della sede dell’amministrazione, cioè del “centro decisionale” (centre of effective management), in presenza specialmente di situazioni in cui il potere esercitato dai componenti l’organo amministrativo risulta derivante da mandati più o meno apparenti e pertanto condizionato e guidato dalla volontà del mandante.
In effetti sono situazioni simili a quella testé descritta che impongono all’Amministrazione finanziaria una serie laboriosa di verifiche, a volte non sempre agevoli, per raggiungere lo scopo di accertare in concreto dov’è situata “la sede dell’amministrazione”.
Il fatto che il legislatore, ricorrendo al semplice esercizio della sovranità normativa interna, abbia individuato(nota) degli “elementi sintomatici” atti a rivelare situazioni di potenziale residenza in Italia di società estere, non può permettere di evidenziare a carico dello stesso sospetti di nuove posizioni conflittuali a livello internazionale.
Il primo dubbio che potrebbe sorgere ad una semplice lettura della novella riguarda un’eventuale situazione di conflittualità con le Convenzioni contro la doppia imposizione. Atteso che la maggior parte delle Convenzioni sottoscritte dall’Italia prevede la cosiddetta clausola “tie-break” che assegna, in caso di doppia residenza, la prevalenza alla sede dell’amministrazione, derimendo in tal modo eventuali contemporanee pretese da parte di più Stati, è necessario constatare che il nuovo comma 5-bis dell’art. 73 TUIR non contrasta con il dettato convenzionale, anzi avvalora ancor più la norma speciale acquisendola quale oggetto della prova contraria a cui è soggetto il contribuente che intende dimostrare la residenza della holding all’estero.
Il problema di collegamento-interrelazione con le Convenzioni, quindi, va superato spostandosi invece sulla bontà degli argomenti portati a supporto della prova contraria dal contribuente e che dovranno essere reputati “adeguati e convincenti” dall’Amministrazione finanziaria. Gli eventuali artifici posti in atto mediante delega ad amministratori stranieri (in genere consulenti professionisti) mal si conciliano con l’esatta individuazione della sede di direzione, attivando di concerto il rischio di far intravedere una ratifica da parte dei fiduciari delle decisioni già prese in Italia dai fiducianti.
In questo senso sembra azzardata una politica comportamentale atta a stabilire o mantenere situazioni artificiose magari supportate da intendimenti contraffattori o soppressori di documentazione aziendale.
La novella non pare costituire un elemento frenante alla formazione di holding estere da parte di residenti italiani per il controllo di società italiane; il freno semmai è rivolto a quelle strutture che fittiziamente si frappongono tra i “manovratori” ed il veicolo situato in Italia. Non sembra pertanto opportuno parlare di una restrizione alla libertà di stabilimento sancita dal Trattato Comunitario: la norma ha una valenza fiscale e come tale deve essere rispettosa, come lo è, della prerogativa che il singolo Stato ha quale strumento atto a realizzare il proprio programma di sviluppo economico. La norma ha una valenza prettamente fiscale a fini antielusivi: il fatto che venga riconosciuta la possibilità della prova contraria è una conferma che le strutture societarie rispettose delle norme tributarie interne e internazionali possono continuare ad esistere; semmai manca nella norma un elemento indicatore del rispetto dei criteri di certezza che ogni Paese dovrebbe statuire a salvaguardia della buona fede dei propri contribuenti.
Nello stesso senso dovrebbe portare un’analisi del presunto trattamento di disparità nei confronti di soggetti esteri: in caso di società italiane esteropossedute che controllano società non residenti il confronto imposto dall’art. 24 (non discriminazione) del Modello di Convenzione porta a parificare, come in effetti parifica, il trattamento subito dal controllante estero con quello dell’eventuale controllante italiano della società domestica descritta in precedenza: la società italiana subirà invece l’esame sulla sua naturale deputazione ad usufruire dei benefici convenzionali in quanto residente o meno nel nostro Paese. La norma non ha elaborato “criteri” diversi di determinazione della residenza di queste società holding, ma ha imposto un gravame procedurale ai residenti che non poteva esigere dai non residenti.
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