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Protezione del patrimonio

17 Giugno 2011 • di Luca Del Federico

Trust: origini e sviluppo

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Il trust nasce nell’esperienza di Common Law per superare i limiti che il sistema giuridico feudale inglese poneva nei confronti di determinati soggetti, in particolare sull’uso degli istituti per il trasferimento della proprietà di beni immobili. In origine il trust era usato principalmente da parte dei Crociati, affinché la loro famiglia ne beneficiasse nell’eventualità di un loro non ritorno in patria. Per aggirare i divieti e i limiti posti dal sistema inglese, s’instaurò la prassi di trasferire il proprio diritto di proprietà del bene immobile (real estate) a favore di un terzo, che aveva l’obbligo di trasferire le rendite (in caso di diritto di proprietà concernente un fondo) al primo proprietario e, alla morte di quest’ultimo, di trasferire la proprietà al soggetto o ai soggetti indicatigli; si poteva, in questo modo, eludere il divieto posto in capo al feudatario di trasmettere agli eredi il proprio feudo

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Sommario

  1. Premessa
  2. Trust o fondo patrimoniale?
  3. Forma del trust
  4. Trust e creditori
  5. Protective trust
  6. Spendthrift trust
  7. Asset protection trust
  8. Conclusioni

  

1. Premessa

Il trust può rispondere a esigenze molto diverse: dalla separazione fra beni familiari e aziendali, alla gestione del passaggio generazionale, alla protezione del patrimonio personale dall’attacco dei creditori, alla gestione di piani di stock-option o alla tutela di beni dopo separazioni coniugali. Il trust si costituisce quindi con il conferimento da parte del settlor (disponente) dei propri beni al trustee (gestore) perché siano gestiti a vantaggio dei beneficiaries (beneficiari) a condizioni ben definite e regolamentate con il deed of trust (atto di trust).
Nel trust moderno, il possesso del bene passa dall’affidante (settlor) al gestore (trustee) che deve avere cura per ripartirlo ai beneficiari solo seguendo le indicazioni del settlor. Può esserci anche un protector (guardiano) per controllare la gestione nell’interesse dei beneficiari.
Tali impegni, tutelati dalla legge, impongono al trustee, pena sanzioni penali, di curare i beni conferiti a esclusivo uso e profitto dei beneficiari.

 


2. Trust o fondo patrimoniale?

Con l’art. 39-novies della legge n. 51 del 2006 è stato introdotto, dopo l’art. 2645-bis, l’art. 2645-ter, concernente la trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione d’interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche.
L’istituto giuridico introdotto risulta avere determinanti analogie con quello del trust e del “fondo patrimoniale”.
Il fondo patrimoniale consiste in un complesso di beni - immobili, mobili registrati, titoli di credito (nominativi o resi tali) - che ciascuno o ambedue i coniugi, oppure un terzo, destinano a far fronte ai bisogni della famiglia. Nell’ipotesi di costituzione da parte dei coniugi il negozio è sempre inter vivos e deve rivestire la forma dell’atto pubblico (art. 167, comma 1, codice civile).
Nella costituzione del fondo patrimoniale sono presenti due fattispecie distinte. Da un lato, la costituzione del fondo patrimoniale è sempre il risultato di un atto di autonomia che per sua essenza crea sui beni un vincolo di destinazione, realizzato attraverso particolari regole di amministrazione e di responsabilità; dall’altro lato la fattispecie costitutiva del fondo può altresì essere accompagnata da una vicenda traslativa, che si realizza attraverso un vero e proprio atto di attribuzione patrimoniale, che può riguardare tanto il diritto di proprietà quanto quello di godimento sui beni.
L’atto costitutivo del fondo patrimoniale consiste in una convenzione matrimoniale, con effetti attributivi e comunque costitutivi di un vincolo di destinazione; il fondo patrimoniale comunque non può esistere senza matrimonio ovvero in caso di risoluzione dello stesso. Il vincolo di destinazione del fondo viene a cessare, infatti, a seguito dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, tranne l’ipotesi in cui vi sia la presenza di figli minori; in tal caso il fondo dura sino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio e il giudice può impartire disposizioni per l’amministrazione dei beni.
È importante osservare che questo regime familiare comporta l’applicazione dell’art. 170 del codice civile che restringe la sfera dei creditori legittimati a soddisfarsi sui beni del vincolo, disponendo che “l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. La ratio dell’istituto è quindi quella di vedere difesa una certa massa patrimoniale, contro i rischi derivanti non solo da sperperi voluttuari, ma anche da iniziative avventate e pregiudizievoli.
Ora, il nuovo art. 2645-ter, prevede che “gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo”.
La norma in argomento sembrerebbe configurare la prima applicazione nel nostro ordinamento giuridico dell’Istituto del trust, perché si può attribuire un vincolo di destinazione specifico a beni immobili e mobili registrati per destinarli a interessi meritevoli di tutela.
Si può individuare, così, per il nostro ordinamento la prima figura di trust interno, seppur il vincolo di cui all’art. 2645-ter non coincida esattamente con il concetto di trust e si debba ritenere ben più simile a quello del fondo patrimoniale.

 


3. Forma del trust

Nel trust normalmente avviene il trasferimento del bene dal disponente al trustee con la costituzione di un vincolo patrimoniale a favore del beneficiario.
Con l’art. 2645-ter del codice civile, invece, non si ha necessariamente alcun effetto traslativo, in quanto la norma dispone solamente “un vincolo di destinazione” a favore di interessi (per persone o enti) meritevoli di tutela.
Elemento caratterizzante del trust è che il bene cui si riferisce è segregato, ossia ha un vincolo di destinazione specifico, non si confonde né con il patrimonio del disponente né con quello del trustee e, di conseguenza, non è aggredibile neppure da eventuali creditori di quest’ultimo.
I beni in trust costituiscono una massa distinta e non diventano parte del patrimonio del trustee, il quale è solo investito del potere e onerato dell’obbligo di amministrarli, gestirli e disporne in conformità alle disposizioni del settlor, sulla base dell’atto di trust e secondo le norme che gli impone la legge.
Il fatto che i beni o i valori costituiti in trust siano isolati rispetto al patrimonio del trustee crea una relazione diretta bene-scopo che è di fatto sconosciuta all’ordinamento italiano, nel quale è tradizionalmente impossibile una differenziazione fra i beni intestati a un medesimo soggetto e, in generale, qualsiasi forma di destinazione di un bene esclusivamente a uno scopo.
In ambito di gestione e amministrazione del patrimonio, il trust consente la protezione di parti specifiche del patrimonio familiare con gestione separata di una parte di esso senza che questa possa essere coinvolta dalle vicende imprenditoriali o familiari del proprietario.
Secondo lo schema classico il trust coinvolge tre soggetti:

  1. disponente o settlor, il quale trasferisce un bene al trustee;
  2. fiduciario o trustee, il quale acquista la proprietà “legale” del bene a vantaggio del beneficiario;
  3. beneficiario o beneficiary, il quale acquista la proprietà “equitativa” del bene stesso.

I beni del trust sono attribuiti al trustee, dal disponente o da terzi per conto di quest’ultimo, mediante negozi dispositivi, fra vivi o mortis causa, che possono essere contemporanei, antecedenti o successivi al negozio istitutivo del trust e determinano l’’affidamento dell’oggetto della disposizione al trustee per il perseguimento dello scopo del trust e la sua conseguente segregazione nel patrimonio del trustee.
La segregazione comporta che i beni in trust abbiano sempre un titolare, il trustee, ma che le vicende obbligatorie o personali di questi non esplichino alcun effetto sui beni in trust. Di contro, il trustee risponderà verso i terzi e verso il beneficiario, quando egli faccia venire meno la segregazione, con il proprio patrimonio generale.
Il trust può concretamente atteggiarsi in modi assai diversi, in relazione alle concrete e specifiche esigenze del disponente, in quanto quest’ultimo è libero di istituire un trust del quale sia egli stesso tanto il trustee quanto uno dei beneficiari (o solo il trustee o solo il beneficiario): i tre soggetti della configurazione elementare possono quindi essere due o perfino uno solo.
La crescente integrazione economica e sociale ha reso negli ultimi anni più evidente, nei Paesi di civil law, la mancanza dell’istituto del trust. Al fine di eliminare ogni incertezza riguardo alla disciplina applicabile nei singoli casi concreti, si è alla fine giunti all’approvazione di una Convenzione che disciplina la legge applicabile e impone il riconoscimento del trust in quanto tale.
La Convenzione dell’Aja del primo luglio 1985 “stabilisce la legge applicabile al trust e regola il suo riconoscimento” (art. 1) negli ordinamenti che originariamente non conoscono tale istituto creato dai tribunali di equità dei Paesi della Common Law.
La Convenzione dell’Aja del 1985 ha, infatti, origine nell’esigenza di armonizzare le regole del diritto internazionale privato, fornendo gli strumenti giuridici necessari per individuare la disciplina complessiva applicabile a un trust. Scopo della Convenzione non è assolutamente l’introduzione dell’istituto del trust nel diritto interno di ogni Paese ma piuttosto quello di porre fine al processo di elaborazione giurisprudenziale che si era andato sviluppando negli ultimi anni nelle diverse giurisdizioni internazionali.
A tal proposito, l’art. 11 della Convenzione impone alle giurisdizioni di civil law di riconoscere il trust in quanto tale.
A favore dell’ammissibilità del trust interno sono solitamente invocati alcuni argomenti desumibili nella Convenzione. Tra questi vi è indubbiamente il disposto dell’art. 6, il quale stabilisce che “il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente, e che, qualora la legge scelta non preveda l’istituzione del trust, tale scelta non avrà valore e sarà applicata la legge di cui all’art. 7”: i sostenitori del trust interno leggono la disposizione nel senso che la scelta della legge applicabile è sempre consentita anche in assenza di altri elementi di internazionalità del rapporto, dato che il solo caso in cui la scelta della legge applicabile al trust deve essere disattesa in favore di criteri obiettivi di collegamento è quello in cui essa cade su un ordinamento che non prevede il trust.
Inoltre, l’art. 15 delta Convenzione fa salve “le disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro” in varie materie (minori e incapaci, matrimonio, testamenti e legittima, trasferimento della proprietà e garanzie reali, protezione dei creditori in caso di insolvenza, tutela dei terzi di buona fede), “allorché non si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione di volontà”; tale disposizione dovrebbe fare riferimento ai trust costituiti da chi è normalmente sottoposto a un ordinamento non-trust, dato che nei sistemi di Common Law il problema del coordinamento con l’eventuale disciplina inderogabile delle varie materie è già risolto all’interno dell’ordinamento.
Il mancato inserimento in sede di ratifica della riserva prevista dall’art. 21 della Convenzione, che consente la limitazione dell’ambito di applicazione della stessa ai soli trust la cui validità fosse regolata dalla legge di uno Stato contraente, manifesta l’impegno dell’Italia al riconoscimento dei trust quale che sia la legge regolatrice.
Lo scopo della Convenzione sembrerebbe quello di permettere ai trust costituiti nei Paesi di common law di operare anche nei sistemi di civil law, in particolare nei sistemi dell’Europa continentale; ne è derivata una Convenzione che, accanto alla creazione di norme comuni di diritto internazionale privato (di conflitto) sul trust prevede il riconoscimento, da parte dei Paesi firmatari che non conoscono il trust, degli effetti di un istituto estraneo al loro sistema tradizionale.
Tale finalità non può essere confusa con quella evidentemente diversa e ben più ampia, di introdurre surrettiziamente il trust all’interno di ordinamenti che per tradizione non lo prevedono. La Convenzione dell’Aja, pur con le particolarità evidenziate, rimane comunque pur sempre una Convenzione in tema di conflitti di leggi e non ha assunto il carattere di Convenzione di diritto sostanziale uniforme. Essa si limita a fornire una definizione convenzionale dell’istituto oggetto del riconoscimento (il cui contenuto minimo è descritto dagli artt. 2 e 11) al solo fine di qualificare gli elementi la cui compresenza costituisce il presupposto di applicazione della Convenzione.
Nel caso concreto, una volta compiuta positivamente questa valutazione, interviene la regola di conflitto che individua la legge applicabile: ma è la Convenzione, e non questa legge, a stabilire se si tratta o no di un trust.
Per effetto della ratifica della Convenzione, dunque, il trust è riconosciuto anche nel nostro ordinamento. Ma ciò avviene soltanto nei limiti dettati dall’art. 13 della Convenzione, ossia solo quando si tratti di un trust costituito in uno Stato che conosca e disciplini il tipo di trust in questione; il tenore della disposizione richiamata esclude, per gli Stati contraenti, l’obbligo di riconoscimento dei trust privi di collegamenti sostanziali con un ordinamento che prevede l’istituto sul piano materiale, in modo da evitare che il trust possa essere indiscriminatamente utilizzato dai cittadini di uno Stato non trust in assenza di elementi di collegamento con ordinamenti di Common Law.

 


4. Trust e creditori

Tre sono le classi di creditori a dovere essere prese in considerazione nell’analizzare il rapporto tra trust e creditori: quelli del disponente, quelli del trustee e quelli del beneficiario.
L’istituzione di un trust implica due effetti principali: da una parte il trasferimento di diritti al trustee che vengono segregati all’interno del suo patrimonio, dall’altra la creazione di un’obbligazione tra trustee e beneficiario.
Ogni trust implica sempre un trasferimento di diritti al trustee, i quali, a trust istituito, non si trovano più nel patrimonio del disponente e quindi i suoi creditori non possono più aggredirli, ovviamente fatta salva la possibilità di esercitare l’azione revocatoria ove ne sussistano i presupposti.
Piuttosto ovvie sono anche le considerazioni sul rapporto tra beni in trust e i creditori personali del trustee: la trust res è segregata all’interno del patrimonio del trustee e protetta dai suoi creditori personali. Questa segregazione è garantita dall’art. 11 della Convenzione de L’Aja.
Non più problematica è la comprensione del rapporto tra creditori del beneficiario e diritti sui beni in trust: i beni in trust appartengono al trustee, non si trovano nel patrimonio del beneficiario. E allora i creditori di quest’ultimo non possono direttamente aggredirli.
L’unico modo per farlo è pignorare il credito che il beneficiario nutre nei confronti del trustee e ottenere da costui i beni in trust, ma per fare ciò occorre che il credito abbia a oggetto il capitale o parte del capitale del trust. Quando così non è, i beni in trust sono sempre protetti nei confronti dei creditori del beneficiario. Quindi, i creditori di un beneficiario dei soli redditi del trust non potranno in nessun modo aggredire il capitale, in quanto il diritto del proprio debitore non permette in nessun modo di ottenerlo. Per la stessa ragione, i creditori di un beneficiario in un trust discrezionale, nel quale il trustee ha la piena discrezionalità nel decidere se e quanto erogare, non hanno ovviamente la possibilità di raggiungere i beni in trust.

Il trust è pertanto uno strumento per mettere i beni che ne costituiscono l’oggetto al riparo:

  1. sempre da creditori personali del trustee,
  2. sempre dai creditori del disponente, tranne che nel caso in cui il trust sia istituito in loro frode ed essi possano ricorrere ai rimedi posti dall’ordinamento per reintegrare la garanzia patrimoniale,
  3. sempre dai creditori del beneficiario, tranne che nel caso in cui questi possano pignorare il credito del loro debitore nei confronti del trustee e tale posizione soggettiva implichi il diritto di ottenere il capitale del trust.

Si rende evidente come non sia assoluta la protezione dei beni in trust e critica sia proprio la possibilità di giungere a questi, pignorando il diritto del beneficiario, quando questo abbia a oggetto il capitale. I giuristi di Common Law si sono presto resi conto di questa possibile difficoltà e da tempo hanno approntato rimedi, dando alla luce due figure che cercano di ridurre l’area di criticità: i protective trust e gli spendthrift trust.

 


5. Protective trust

Il protective trust è una creazione della prassi inglese, poi tipizzata dal Legislatore anglosassone nel 1925 (Trustee Act 1925); anche se meno utilizzati dalla prassi, essi possono comunque essere creati anche negli Stati Uniti. Una clausola protective protegge i beni in trust da un attacco indiretto da parte dei creditori del beneficiario mettendo fine al diritto di quest’ultimo di ricevere i benefici del trust al verificarsi di determinati eventi nei quali egli non potrebbe percepire le somme altrimenti a lui dovute. All’avverarsi di tali eventi, il trust diviene discrezionale e l’interesse del beneficiario una mera aspettativa.
Quando uno degli eventi è l’esecuzione individuale o collettiva e questa si verifica, nessun diritto di credito si trova più nel patrimonio del beneficiario e nulla può essere quindi incluso nella massa fallimentare o nel pignorato.
Quando il beneficiario è anche disponente, esistono però limiti all’efficacia di questa clausola: essa non è infatti opponibile al fallimento di costui. Il concorso può quindi chiedere al trustee quello che spettava al decotto prima dell’insolvenza in base ai termini del trust fisso (“fixed”) che si sarebbe dovuto trasformare in discrezionale all’avverarsi della condizione dedotta nella clausola protective. Solo alla chiusura del fallimento, il trust discrezionale potrà finalmente prendere il posto di quello fisso.

 


6. Spendthrift trust

Lo spendthrift trust è, invece, una creatura tipica dei giuristi americani: il diritto inglese infatti proibisce l’imposizione di quei vincoli d’indisponibilità (disabling restraints on the alienation of property) necessari per la creazione di questo tipo di trust. La struttura di uno spendthrift trust permette al disponente di attribuire al beneficiario un “interesse” intrasferibile, né volontariamente, né per forza di legge; non solo egli non può in alcun modo disporne, ma neanche i suoi creditori possono appropriarsene.
Al contrario di ciò che avviene per i protective trusts inglesi, nessuna condizione risolutiva è quindi imposta alla posizione soggettiva del beneficiario, la quale invece è semplicemente separata nel patrimonio di quest’ultimo e gravata da un vincolo d’indisponibilità. Questo vincolo d’indisponibilità è il frutto di due elementi fondamentali: un restraint against voluntary alienation, cioè una restrizione del diritto del beneficiario di mettere fine al trust e di cedere la propria posizione soggettiva, e un restraint against involuntary alienation che restringe il potere dei creditori del beneficiario di rifarsi sul diritto di quest’ultimo, separandola. L’essere queste due componenti, in realtà, entità indipendenti, fa sì che si possano creare trust nei quali il beneficiario può disporre del proprio diritto ma i creditori non possono aggredirlo: sono i cosiddetti “quasi-spendthrift” trust.

 


7. Asset protection trust

Di recente la prassi anglosassone ha definito un nuovo tipo di trust: l’asset protection trust.
Le caratteristiche di questo trust sono il suo contenere una clausola spendthrift o protective, l’essere in favore del disponente stesso, il prevedere che alle istruzioni di quest’ultimo debba rispondere il trustee, l’essere il trustee e i beni in trust localizzati nel Paese di costituzione, l’essere il trust di breve durata.

Questa schematica analisi deve necessariamente concludersi con alcune riflessioni sull’operatività in Italia dei trust per proteggere il patrimonio, quando il beneficiario sia qui residente e italiani siano i suoi creditori.
Quando i creditori si trovano di fronte ad un protective trust, si può chiaramente dire che essi non potranno ottenere soddisfazione. La posizione giuridica di un beneficiario di questi trust si trasforma da diritto di credito ad aspettativa, di fronte al tentativo d’aggressione da parte dei creditori. Al momento dell’esecuzione, nessun credito si trova quindi nel patrimonio del beneficiario e i suoi creditori non possono pignorare qualche cosa che non c’è. Se il creditore si trova di fronte a un beneficiario di uno spendthrift trust le cose sono più complesse.
In questo caso, non c’è nessuna condizione risolutiva a cui è sottoposto il diritto di credito del beneficiario, esso è semplicemente impignorabile. Si crea quindi una limitazione della responsabilità.

 


8. Conclusioni

Tornando all’art. 2645-ter del codice civile, il costituente, con lo strumento individuato dalla predetta norma, realizza su tutto o parte dei suoi beni e diritti un vincolo di destinazione (similmente al trust) per un fine determinato, a profitto del beneficiario. Secondo l’art. 2645-ter, non si verifica il trasferimento della proprietà sui beni e diritti ma si trascrive una destinazione che diviene opponibile ai terzi per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria.
Ai fini civilistici, dunque, proprietario è rimasto il disponente; il beneficiario, invece, per la durata del contratto è solo un soggetto tutelato che potrà fruire dei beni conferiti e dei loro frutti che possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo; terminato il periodo stabilito nel contratto (che non può eccedere novanta anni o la vita della persona), il beneficiario perde la tutela in argomento. Tuttavia, ai fini fiscali, il beneficiario non è mai considerato proprietario: il costituente rimane proprietario del bene.
Dal punto di vista dell’imposizione diretta, quindi, il costituente non è soggetto a imposizione fiscale per la costituzione del vincolo di destinazione poiché non avviene trasferimento dei beni mentre il beneficiario, invece, è obbligato a pagare le imposte dirette sugli utili che fossero a lui attribuiti dal vincolo di destinazione sul bene per i frutti da esso derivanti, salvo diversa disposizione dell’atto di destinazione ove il costituente potrebbe riservarsi l’obbligo di provvedere al pagamento delle imposte dovute sui redditi tassabili derivanti dall’utilizzo dei beni.
L’art. 2645-ter stabilisce quindi che i beni sui quali è apposto il vincolo di destinazione costituiscono una massa separata; i beni possono essere aggrediti solo dai creditori nati dalla conservazione e/o dalla gestione di questi beni.
Dal punto di vista giuridico, l’atto costitutivo del vincolo di destinazione riveste natura negoziale. Ne discende che, per quanto riguarda la natura giuridica dell’atto in questione, si delinea un atto unilaterale di destinazione; al contrario, se è ritenuto necessario il consenso di altri soggetti (coniuge, figli, etc.), la costituzione del vincolo di destinazione è riconducibile a un contratto, o meglio, a una convenzione contrattuale.
In tale atto di costituzione si esprime soltanto una volontà “vincolante”, essendo del tutto esclusa ogni volontà traslativa. L’atto costitutivo del vincolo determina un assoggettamento a una destinazione del bene e dei suoi frutti per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a determinati soggetti individuati dalla norma, ma non incide sulla titolarità del bene, né determina l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo sia pure limitato, neppure per effetto di eventuale vincolo di inalienabilità imposto sul bene.
Occorre evidenziare come il Legislatore nell’art. 2645-ter utilizza anche i termini “conferente” e “conferiti” indicando un possibile effetto traslativo. A nostro giudizio la terminologia non è del tutto corretta in quanto, a differenza di altri istituti giuridici (anche del trust,) non si realizza nella fattispecie in esame alcun trasferimento al beneficiario ma avviene solamente una stretta destinazione del bene che ne vincola per il periodo definito la gestione e la responsabilità del bene. Si sarebbero dovuti invece utilizzare i termini ben più puntuali: “costituente” e “costituiti”.

 

 DOI  10.4439/fb9

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