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15 Marzo 2012 • di Saverio Sabatini

Scelta preventiva del proprio amministratore di sostegno

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Da anni si discute dell’opportunità di promulgare una legge che regoli il “fine vita” e dia la possibilità di decidere in merito ai trattamenti in caso di malattia degenerante. Nel commento si cercherà di far luce sullo status normativo e giurisprudenziale, con attenzione alle disposizioni che ora consentono di sopperire al vuoto normativo.Riportiamo nella sezione Strumenti due esempi di formule.

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Sommario


1. Premessa
2. Il consenso informato
3. Il diritto di non curarsi
4. La designazione “ora per allora”
5. Il c.d. Testamento Biologico
6. Il “Fine Vita” nel diritto tedesco
7. I casi Englaro e Welby
8. Conclusioni

 

 

1. Premessa

È argomento di sempre grande attualità che, ciclicamente, torna a riempire pagine di quotidiani e i notiziari nazionali il c.d. “fine vita” e le connesse e relative implicazioni, a partire dal c.d. testamento biologico. Nel prosieguo della trattazione si ometterà qualsiasi riferimento etico o religioso in merito alla spinosa questione che ci occupa (scusandoci sin d’ora se qualche passaggio - pur involontariamente - possa ledere la sensibilità del lettore), ponendoci l’obiettivo primario di fornire un’asettica risposta, meramente giuridica, alla domanda relativa all’ammissibilità nel nostro ordinamento di disposizioni inerenti alla propria salute (con risultati che, probabilmente, per taluni saranno sbalorditivi) e alla propria vita e fornendo al lettore una soluzione pienamente conforme alle attuali pronunce della Cassazione e della Corte Costituzionale.
Per ulteriore chiarezza espositiva si riporteranno gli estremi delle più rilevanti pronunce giudiziarie e i dispositivi delle norme di legge richiamate e gli esempi di taluni Paesi stranieri, con particolare attenzione al caso - Germania.
Nel sentire comune si associa, naturaliter, il “testamento biologico” all’eutanasia, finendo per liquidare un problema di portata macroscopica a semplicissima negazione della possibilità di disporre della propria salute e del proprio corpo a mezzo indicazioni volontaristiche, ancorché scritte.
Partiamo dal dato meramente letterale: non può esistere una “buona morte” (questa la traduzione dal greco del termine “eutanasia”), o una “morte dolce” se non quale ossimorico riferimento a un evento che il nostro Legislatore non ha (e non sembra voler) disciplinare; si prendono spesso a parametro quelle legislazioni estere che, invece, consentono uno “ius vitae ac necis” ben più esteso.
L’Olanda nel 2002 si è dotata di una Legge che, prima nel panorama giuridico europeo (seguito a ruota dal Belgio), disciplina l’eutanasia; una recente ricerca, pubblicata sugli Archives of Internal Medicine, ha preso in considerazione circa 2.500 richieste di eutanasia. Di queste: il 40 per cento sono state esaudite; il 13 per cento sono state accettate ma il malato è morto anzitempo; il 13 per cento non ha percorso tutte le fasi del procedimento perché i malati sono morti; il 13 per cento sono state accettate ma il malato ha cambiato idea (il medico deve verificare le reali intenzioni del richiedente più volte fino all'ultimo istante prima della somministrazione); il 12 percento sono state rigettate dal medico.
Dalla ricerca è emerso il dato sorprendente che i malati spesso chiedono l'eutanasia spinti da ragioni che hanno poco a che vedere con la medicina. I medici hanno accettato la richiesta solo quando motivata da inaudite sofferenze o estrema debolezza fisica e perdita della dignità. Spesso però si sono trovati di fronte a richieste di morte spinte dalla depressione o dalla volontà di non essere un peso per la famiglia. Ecco che allora, anche in un Paese evidentemente più “aperto” del nostro (per cultura, storia e tradizione), viene fortemente avvertita l’esigenza di tenere a freno un fenomeno che, se non delimitato da norme rigide e precise, rischia di condurre a un’indiscriminata quanto immorale “eutanasia di massa”.

Sia consentito citare un’altra esperienza (ai nostri occhi) molto discutibile: nello Stato dell’Oregon (USA) è stata concessa una “dolce morte” a un soggetto che soffriva, da anni, di acuta depressione. Uno studio condotto dall’Oregon Health and Science University e pubblicato dal British Medical Journal ha evidenziato come l’attuale legislazione rischi di concedere la prescrizione per i farmaci letali a chi ha preso la decisione di morire condizionato da uno stato depressivo. Lo studio, tuttavia, riflette i molti dubbi di chi accusa le istituzioni sanitarie di essere passati in fretta da un "dolce morte" a un "morte troppo facile".
Lo studio ha esaminato i casi di 58 pazienti, malati terminali di cancro o di sclerosi laterale amiotrofica, già volontariamente in lista per ricevere l’eutanasia. In 18 hanno ottenuto la prescrizione medica. Di questi, nelle settimane subito successive, solo 9 hanno deciso di togliersi la vita ingerendo i farmaci letali e tra di loro c’erano gli unici 3 malati terminali che presentavano evidenti sintomi di depressione, tra i più rapidi, solo due mesi l’attesa, a scegliere di morire. È emerso che nel 2007 nessuno dei malati terminali dell’Oregon che ha fatto ricorso all’eutanasia è stato sottoposto a una preventiva visita psichiatrica e "sebbene la maggior parte dei malati terminali che ricevono un aiuto nel morire non hanno disturbi depressivi - scrivono i ricercatori - la pratica della legge potrebbe non riuscire a proteggere alcuni pazienti le cui scelte sono influenzate dalla depressione".

L’esperienza dei due Paesi menzionati induce ad attente quanto ponderate riflessioni, ma non deve impedire al Legislatore Italiano di licenziare una norma che da troppi anni giace nei cassetti del Parlamento; si cercherà tuttavia di dimostrare come l’auspicata e auspicabile legiferazione in tale settore non debba essere intesa come freno assoluto a una pratica - quella che consente la redazione di disposizioni sul “fine vita” - che, per taluni versi, deve ritenersi già ammissibile nel nostro ordinamento. Si cercherà, inoltre, di scindere l’eutanasia (intesa quale direttiva da dare a terzi in merito alla propria morte, da ritenersi sicuramente inammissibile nel nostro ordinamento) dalle disposizioni anticipate inerenti trattamenti sanitari “in previsione della propria futura incapacità” (così art. 408 c.c.) rese a mezzo atto pubblico o scrittura privata autenticata, indipendentemente dalla promulgazione o meno di norme di Legge.

 

 

2. Il Consenso Informato

Il consenso informato costituisce la legittimazione del trattamento sanitario; al di fuori dei casi di necessità ex art. 54 c.p., l’intervento del medico che sia privo di consenso informato del paziente, deve intendersi illecito anche quando sia nell’interesse del paziente. Tale assunto deriva da norme di rango costituzionale dotate di imperatività e immediata operatività e applicabilità senza che sia richiesto l’intervento del legislatore ordinario (c.d. Drittwirkung) e da norme di derivazione comunitaria o sovranazionale:
a) l’art. 2 della Costituzione prevede la libertà di cura come diritto fondamentale della persona nella sua identità e dignità;
b) l’art. 13 della Costituzione sancisce l’inviolabilità della libertà quale sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo; il consenso informato afferisce alla libertà morale e all’autodeterminazione del cittadino, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea (tutti principi sussumibili nell’art. 13 Cost.);
c) l’art. 32 della Costituzione consacra la tutela della salute come diritto fondamentale, prevedendo i trattamenti sanitari obbligatori solo con riserva di legge qualificata;
d) gli artt. 1 e 33 della Legge 833/1978 (Legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale) sanciscono la volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari;
e) la Carta dei Diritti Fondamentali di Nizza del 2000, all’art. II-63 comma 2, prevede il diritto del cittadino europeo al consenso libero e informato in merito ai trattamenti cui deve essere sottoposto;
f) la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 (“Convenzione per la Protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina: Convenzione sui diritti dell’Uomo e la Biomedicina”), pur non ancora ratificata dallo Stato Italiano, trova comunque operatività nel nostro ordinamento in quanto assolve una funzione ausiliaria sul piano interpretativo, di tal ché deve essere utilizzata nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile conforme alla norma sovranazionale.

Tali indicazioni sono state recepite nel Codice Deontologico Medico che all’art. 35 vieta al medico di intraprendere attività di qualunque specie (diagnostica o terapeutica) senza l’esplicito e informato consenso del paziente (“Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente”).
Sulla scorta di tale - imponente - produzione normativa, la Cassazione con sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007 ha ribadito la preclusione per il medico di porre in essere trattamenti sanitari senza il consenso informato del paziente. Ma la Corte Suprema è andata oltre, statuendo un diritto assoluto per il cittadino di “non curarsi”, anche qualora tale condotta ponga a repentaglio la propria vita; la Corte motiva tale opzione per la c.d. “terza direzione” (quella della volontà interruttiva) in omaggio all’esigenza di “rispetto dell’individuo e dell’intimo nucleo della sua personalità quale formatosi nel corso di una vita, in base all’insieme delle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che ne improntano le determinazioni”.


3. Il Diritto di non curarsi

Quanto detto ha quale necessario corollario che al medico non viene riconosciuto un diritto di curare (non configurando il nostro ordinamento il medico quale dominus che possa porre il soggetto in stato di soggezione tale da sottoporlo indiscriminatamente a interventi a suo piacimento), così come al cittadino deve essere riconosciuto il diritto di scegliere tra i diversi trattamenti che il medico dovrà suggerirgli, con facoltà, infine, di rifiutare la terapia e decidere – coscientemente – di interromperla (pur nella sua fase terminale). La citata sentenza della Corte di Cassazione del 2007 precisa che la scelta rispetta pedissequamente quel percorso biologico naturale dal quale scaturisce la legittimità del rifiuto (o della richiesta di interruzione) di un trattamento salvifico da parte della persona nel pieno delle proprie capacità; il principio di diritto appare chiaro e incontrovertibile proprio in quanto suffragato dalle citate norme costituzionali e merita un chiarimento esplicito: non si fraintenda l’assunto della Suprema Corte, nel tentativo di far entrare dalla finestra ciò (l’eutanasia) che non è ancora mai entrato dalla porta: la Corte non prende in considerazione minimamente la possibilità che un soggetto – ancorché capace di intendere e di volere – possa disporre della propria salute nel senso di richiedere (o pretendere) l’assunzione di farmaci mortiferi che pongano fine alle proprie sofferenze. Il principio statuito dalla Corte è ben diverso ed è circoscritto a ipotesi nelle quali sia evidente un accanimento terapeutico nei confronti del paziente e il medesimo resti “in vita” esclusivamente per il tramite di macchinari che gli consentano di respirare e di nutrirsi artificialmente. Il detto rifiuto esprime una scelta cosciente e informata, indirizzata verso il corso naturale della vita, senza coartazioni o ingerenze.

Tale autodeterminazione terapeutica che importi il rifiuto di cure o l’interruzione di una terapia (anche tale da condurre alla morte) deve essere necessariamente supportata da una completa ed esaustiva informazione: altra sentenza della Corte Costituzionale del 1994 ebbe modo di far luce sul citato articolo 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto a impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto.
Sia consentito tornare sulla sentenza del 2007 della Suprema Corte (suffragata da sentenza n. 334 dell’8 ottobre 2008 della Corte Costituzionale) per esprimere il principio di diritto su cui poggia l’intero assunto della medesima:”Deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché ad esso consegua il sacrificio del bene della vita”. Onde attenuare la portata di un’affermazione così dirompente, la Corte richiede una “strategia della persuasione” al fine di offrire il supporto della massima solidarietà nei casi di debolezza e sofferenza, oltre al già riferito dovere di informazione “autentico ed attuale. Come vedremo più ampiamente nel corso della trattazione (ed in particolar modo con riferimento alla nomina di amministratore di sostegno), il dubbio viene sollevato allorquando un soggetto pienamente capace intenda nominare un proprio rappresentante (mero nuncius?) per le ipotesi in cui dovesse venire a trovarsi in stato di incapacità naturale e non sia più in grado di provvedere alla cura dei propri interessi, anche in ambito di salvaguardia psicofisica.
La stessa Cassazione del 2007 ha riconosciuto il diritto all’incapace a non essere mantenuto in vita tramite trattamenti artificiali; vediamo il caso di specie: Tizio, trovandosi in stato vegetativo valutato clinicamente irreversibile, non aveva lasciato disposizione alcuna in merito ai trattamenti da subire; la Corte ritenne possibile, sulla base di elementi probatori concordanti, formare un convincimento secondo il quale la complessiva personalità dell’individuo era orientata nel senso di ritenere lesiva della sua dignità la protrazione di uno stato vegetativo senza speranze di guarigione o di miglioramenti della qualità di vita.
Sia consentito anticipare sin d’ora che, a fortiori, il legislatore del 2004 è intervenuto a colmare tale vuoto normativo, introducendo la figura dell’amministratore di sostegno nel nostro ordinamento, consentendo che sia il medesimo beneficiario a nominare il proprio rappresentante, al quale demandare le necessarie indicazioni sul proprio “fine vita”, pur sempre nei citati limiti (sia ben chiaro che l’art. 32 Cost. non garantisce il “diritto a morire” ma sancisce “il diritto a consentire che il naturale evento della morte si attui con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale quale costruita dall’individuo nel corso della vita attraverso le sue ricerche razionali e le sue esperienze emozionali” ; così Tribunale di Modena, decreto 13 maggio 2008).



4. La Designazione “ora per allora”

Inquadrato il problema del “fine vita”, si passi alle soluzioni proposte.
Se è vero – come è vero – che la Giurisprudenza ha ammesso una ricostruzione delle volontà dell’incapace, attraverso l’analisi del suo percorso di esperienze di vita, al fine di valutare quella che sarebbe stata la sua volontà nel caso in cui non fosse risultato incapace naturale, a maggior ragione deve ritenersi ammissibile un’autodeterminazione espressa del singolo riguardo ai trattamenti sanitari che intende subire od evitare. Come anticipato, l’istituto che meglio si presta a tale scopo è l’amministrazione di sostegno (si veda la formula allegata): il legale rappresentante che chiedesse l’interruzione del trattamento vitale, dovrebbe agire nell’interesse dell’incapace e, nella ricerca del best interest, prendere decisioni non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace ma “CON” l’incapace, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
Questo criterio è stato applicato alla lettera nel caso di Eluana Englaro (del quale ci occuperemo incidentalmente) dalla Corte di Appello di Milano che ha ricostruito la volontà della ragazza desumendola dalla sua personalità e dal suo stile di vita, così accettando la richiesta del suo tutore di interrompere l’idratazione artificiale e l’alimentazione.
Il criterio del best interest si desume anche dall’art. 410 c.c. che, al comma 2, prevede l’adozione da parte del Giudice Tutelare dei provvedimenti opportuni in caso di negligenza dell’amministratore di sostegno; radice di questo principio – ormai assorbito anche nel nostro ordinamento – è anglosassone: notissimo, ad esempio, il caso Bland, tifoso inglese che rimase travolto durante scontri tra tifoserie nel corso di una partita di calcio, in relazione al quale la House of Lords decise che, in mancanza di indicazioni da parte dell’incapace e non riuscendo a ricostruirne la volontà aliunde, doveva ritenersi contrario all’interesse del malato protrarre la nutrizione e l’idratazione artificiali in quanto invasivi, “poiché detta prosecuzione sarebbe inutile e non gli recherebbe alcun beneficio”.doveva ritenersi contrario all’interesse del malato protrarre la nutrizione e l’idratazione artificiali in quanto invasivi".

Sia chiaro che la Legge n. 6 del 9 gennaio 2004 (che ha introdotto nel nostro ordinamento la figura dell’amministratore di sostegno) è andata a colmare una lacuna normativa, ma allo stesso tempo si è posta in continuità con altre norme che già conoscevano la legale rappresentanza in ambito sanitario:
• D.Lgs. 24 giugno 2003 n. 211 art. 5: è ammessa la partecipazione alla sperimentazione clinica di adulti incapaci, che non hanno dato o non hanno rifiutato il loro consenso informato prima di divenire incapaci, a condizione che vi sia il consenso informato del legale rappresentante, tale da costituire una presunzione di volontà dell’incapace;
• Convenzione di Oviedo – art. 6 comma 3: “allorquando un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge”;
• Legge 22 maggio 1978 n. 194 – art. 13: in merito alla posizione di una donna interdetta per infermità di mente, la richiesta di interruzione della gravidanza può essere presentata, oltre che dalla medesima, anche dal suo tutore (e poi confermata dalla donna).

Ci piace la definizione di “Testamento di sostegno” data da taluna dottrina, derivante dal combinato disposto degli articoli 406 c.c. (“il ricorso per l’istituzione dell’amministratore di sostegno può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario ANCHE se minore, interdetto o inabilitato”) e 408 c.c. (“l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, IN PREVISIONE DELLA PROPRIA EVENTUALE FUTURA INCAPACITÀ, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”): giusta tal evidenza normativa, si giunge ad affermare che con tale documento all’individuo sia consentito designare il proprio amministratore di sostegno ed esprimere le volontà anticipate, sì da rendere il nominato amministratore di sostegno un mero nuncius di volontà già espresse.
La discussione nella Giurisprudenza di merito riguarda, allora, il momento in cui tale nomina deve ritenersi efficace: l’art. 404 c.c. (“la persona che … si trova nell’impossibilità … di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal Giudice Tutelare”) sembra suggerire l’attualità dello stato di incapacità del beneficiario come presupposto per la produzione degli effetti dello strumento protettivo, ma non anche come requisito per la sua istituzione; chi scrive è portato ad aderire alla teoria espressa dal Tribunale di Modena con decreto 5 Novembre 2008, secondo il quale se l’amministratore di sostegno non potesse essere nominato in via anticipata ed eventuale, l’indicazione di cui all’art. 408 c.c. rischierebbe di essere del tutto vana a causa dei tempi necessari per la nomina di un rappresentante legale; secondo il Tribunale, allora, “assumere l’essenzialità del requisito dell’attualità produrrebbe l’illogico cortocircuito di una interpretazione abrogativa nella maggior parte delle situazioni reali”. Nel caso del Tribunale di Modena del 2008, l’organo giudicante:
• acconsentì alla nomina dell’amministratore di sostegno,
• ribadì come l’autodeterminazione non possa avere rilievo quando si concretizza per una scelta irreversibile, come quella della morte (richiamando un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 2008 che legittimava il rifiuto o la rinuncia alle terapie da parte di un paziente autonomo e competente),
• giudicò ricevibile una disposizione anticipata in merito alla donazione di organi per trapianti, la cremazione della propria salma con dispersione delle ceneri in natura e l’esclusione di cerimonie funebri,
• consentì la negazione del consenso a praticare trattamenti terapeutici di rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusioni di sangue, terapie antibiotiche, ventilazione, idratazione ed alimentazione forzata e artificiale, con obbligo ai sanitari di apprestare alla persona, con le maggiori tempestività, sollecitudine ed incidenza ai fini del lenimento delle sofferenze, le cure palliative più efficaci, compreso l’uso di oppiacei;
• prescrisse che, nell’eventualità di malattie o lesioni traumatiche irreversibili, la non adozione delle indesiderate tecnologie artificiali di sopravvivenza fosse accompagnata dalla facoltà di porre in essere “tutti i provvedimenti atti ad alleviare le mie sofferenze, compreso in particolare l’uso di oppiacei, anche se essi dovessero anticipare la fine della mia vita”.

Le conclusioni cui giunse il Giudice Tutelare di Modena sembrano coerenti con le indicazioni della Suprema Corte (“si tratta di un diritto assoluto di non curarsi, anche se tale condotta esponga al rischio stesso della vita”; “il diritto alla salute non si contrappone all’autodeterminazione ma costituisce un tutt’uno con esso”; “il diritto all’autodeterminazione garantisce l’evento naturale del passaggio dalla vita alla morte con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale quale costruita dall’individuo nel corso della vita attraverso le sue ricerche razionali e le sue esperienze emozionali”).

Alle medesime conclusioni è giunto il Tribunale di Firenze con decreto 22 dicembre 2010, nel quale si ribadisce il diritto del singolo a non curarsi pur quando la condotta lo esponga al rischio della vita e si evidenzia come l’amministrazione di sostegno sia lo strumento idoneo a colmare il vuoto legislativo in tema di testamento biologico, rappresentando il mezzo più congeniale al fine di proteggere l’individuo, pur quando l’incapacità sia solo eventuale e futura.
Questione di fondo, ancora una volta, è la necessità o meno che sussista una attualità dello stato di incapacità del beneficiario quale presupposto per la produzione degli effetti dello strumento protettivo e non anche il requisito per l’istituzione della misura. Giova ribadire come anche il dato letterale delle norme in tela di amministrazione di sostegno deponga a favore di tale soluzione che, nella pratica, consentirebbe al rappresentante legale dell’incapace di assumere pieni poteri alla condizione sospensiva dell’effettiva venuta ad esistenza dello stato di incapacità, ma potendo godere di una nomina immediata, che gli consenta di poter agire con sollecitudine non appena verificatasi l’incapacità, senza le lungaggini ordinarie di un procedimento di volontaria giurisdizione. Tuttavia il Tribunale di Verona con decreto del 4 gennaio 2011 ha fatto un passo indietro, affermando che “il documento contenente la designazione ORA PER ALLORA può essere portato in giudizio davanti al giudice tutelare per l’apertura di una amministrazione di sostegno, al momento del verificarsi della futura incapacità; fino a tale momento il ricorso non può trovare accoglimento poiché difetta una delle condizioni dell’azione ovvero l’attualità dell’infermità cui è sotteso l’interesse ad agire”.

Ma davvero è richiesto dalla legge il requisito dell’attualità? Un soggetto pienamente sano e capace non può richiedere la nomina di un rappresentante legale per il tempo in cui cesserà (eventualmente) di essere capace naturale?
Oltre alle citate norme di legge che depongono a favore della visione positiva, anche la ratio stessa dell’amministrazione di sostegno (a differenza dei provvedimenti di interdizione ed inabilitazione) non comportano perdita della capacità di agire del beneficiario; sicché la designazione e la nomina di amministratore di sostegno possono (e dovrebbero) avvenire a prescindere dall’attualità dell’infermità, pur specificando che l’efficacia della nomina sarà subordinata al verificarsi della condizione sospensiva relativa allo stato di incapacità (condizione che dovrà risultare dal decreto di nomina e che avrà idonea pubblicità a mezzo annotazione a margine dell’atto di nascita, nonché iscrizione nel Registro delle Amministrazioni di Sostegno presso il competente Tribunale).

 

5. Il c.d. Testamento Biologico

Entrando subito in medias res, il Disegno di legge votato dal Senato il 26 marzo 2009 sulle “Dichiarazioni Anticipate di Trattamento” è stato ritenuto “ingannevole ed autoritario” da una Commissione di Giuristi (Rescigno, Rodotà, Pace, Ferrando) che ha lanciato l’appello “No alla cancellazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione”.
Sulla scia della morte della giovane Eluana Englaro, all’ordine del giorno del Parlamento Italiano fu posta la discussione in merito al “consenso informato” ed alle c.d. D.A.T. (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento). Il disegno di legge citato ruota intorno al principio di inviolabilità del diritto alla vita ex art. 575 codice penale: ma tale diritto deve intendersi “disponibile” o “indisponibile”? Secondo la prevalente Giurisprudenza il diritto all’autodeterminazione terapeutica non deve incontrare limiti neppure quando ciò implichi la lesione del bene “VITA”, sicché sarebbe lecito rinunciare alle cure mediche; il citato disegno di legge, invece, aderendo alla posizione della minoritaria dottrina, si proponeva:
A) di introdurre nel nostro ordinamento norme improntate ad un principio di indisponibilità (l’art. 1 lett. a riconosce la “VITA UMANA QUALE DIRITTO INVIOLABILE E INDISPONIBILE”);
B) di prevedere quale “SCOPO ESCLUSIVO” del legale rappresentante dell’incapace affetto da malattie degenerative la salvaguardia della salute del rappresentato;
C) di impedire all’individuo di disporre, in qualsiasi modo, del bene-vita, vietando al medico di prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente (art. 7 comma 2);
D) di disciplinare il “consenso informato”, che dovrà essere prestato in forma “esplicita” (art. 2 comma 1) e riportato in un “documento sottoscritto dal paziente, che diventa parte integrante della cartella clinica” (art. 2 comma 3);
E) di introdurre nel nostro ordinamento le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, per iscritto, con data certa, debitamente sottoscritte dal dichiarante e dal medico di medicina generale, unico soggetto legittimato a riceverle, che NON abbiano ad oggetto indicazioni sull’alimentazione e idratazione, ma che possano contenere indicazioni sulla rinuncia a trattamenti sanitari sproporzionati o sperimentali, la non attivazione di trattamenti, purché in conformità con il codice di deontologia medica e la nomina di un fiduciario.

Non sono mancate le critiche, fondate su dati normativi rivenienti nella medesima Costituzione: norme così dettate violerebbero palesemente il principio dell’autodeterminazione terapeutica e configgerebbero con l’art. 3 della Costituzione, in quanto introdurrebbero una disparità tra individui con capacità naturale (che ben potranno esprimere dissenso in ordine ai trattamenti salva-vita) e soggetti incapaci, ai quali, invece, tale diritto verrebbe disconosciuto.

Cercando di coniugare quanto detto in precedenza, con le norme dettate dal disegno di legge (approvato solo dal Senato e quindi non ancora divenuto Legge della Repubblica), non v’è chi non veda come si arriverebbe ad una limitazione rispetto a quella che è l’ordinaria prassi dei Tribunali di Merito italiani, che, ad oggi, ammettono una nomina di amministratore di sostegno, al quale demandare indicazioni sanitarie che possano anche comportare la cessazione o il rifiuto di terapie tali da condurre anche all’esito del percorso biologico del soggetto, con passaggio dalla vita alla morte.
Le restrizioni e le inutili ridondanze (sembra ultroneo parlare di “fiduciario” quando il codice civile prevede già la figura di un amministratore di sostegno) della norma al vaglio del parlamento sembrano aver portato la discussione ad una posizione retrograda, determinando uno stallo nel percorso normativo; altrettanto inutile sembrano il riferimento alla dignità della persona (già sancita nella nostra carta costituzionale) e il divieto di accanimento terapeutico (sancito dal Codice deontologico medico all’art. 16 – che vieta al medico “l’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita” – e dalla Convenzione di Oviedo).

Per completezza si aggiunga che taluni Comuni hanno già introdotto dei Registri Civili nei quali inserire le disposizioni anticipate sul trattamento sanitario dei cittadini, pur in assenza della promulgazione della norma; si veda, all’uopo, l'allegata formula proposta dal Comune di Torino, la cui determinazione sembra evidentemente figlia della norma non ancora promulgata (basti vedere la nomina del c.d. “fiduciario”, figura della quale non si sentiva alcun bisogno, stante la possibilità di nominare un amministratore di sostegno ex artt. 404 c.c. ss.).

 

6. Il “Fine Vita” nel diritto tedesco

Nel paragrafo precedente si è criticata non poco la scelta del legislatore di proporre una norma sul “fine-vita” che si ponga in netto contrasto con le indicazioni della più recente giurisprudenza; l’opposto è accaduto in Germania nel 2009, con la c.d. Patentienverfugungsgesetz (Legge sulle Disposizioni del paziente), che ha decretato il carattere vincolante per il medico delle disposizioni di fine vita dell’individuo, andando a novellare il codice civile nella parte destinata all’amministrazione di sostegno (così confermando che è l’istituto dell’amministrazione di sostegno il più idoneo a tali fini).
Il breve excursus sulla legge tedesca ci serva da monito per le future norme che il nostro legislatore intenderà varare: la legge tedesca, qui commentata brevemente, ha consentito ad oltre 8 milioni di cittadini tedeschi di far sì che venisse rispettato il loro diritto all’autodeterminazione, senza alcuna forma di vincolo e senza alcuna forma particolare (salvo l’obbligo di produzione scritta ad probationem).
Nessuno può essere obbligato ad utilizzare l’istituto in esame”: ciascun cittadino ha la possibilità ed il diritto di liberamente scegliere se accettare il percorso naturale biologico della vita o tentare con ogni strumento possibile di postergare il momento del decesso.

Il Legislatore tedesco ha, così, inteso disciplinare compiutamente l’ipotesi di chi, in ottica di una futura, eventuale, incapacità naturale, intenda dettare disposizioni volte a rifiutare trattamenti medici non desiderati. Ma con una intelligente moderazione: ai soggetti coinvolti (medico e amministratore) viene imposto di discostarsi dalla volontà del paziente quando vi siano mutamenti nella medicina e nella scienza di notevole rilevanza; in caso di contrasto tra i soggetti, la decisione verrebbe rimessa al giudice; inoltre all’amministratore viene concesso un potere nella fase di valutazione circa l’adeguatezza dell’effettiva situazione in cui versa la persona: la decisione dovrà scaturire a seguito di dialogo informato con il medico curante e, se possibile, con i parenti del malato.
Altro elemento rilevante delle disposizioni di fine vita disciplinate dall’ordinamento tedesco è la facoltà di revocare le dichiarazioni di fine vita, in qualsiasi momento e in qualsiasi forma, finché l’individuo sia capace di intendere e di volere; una volta persa tale capacità spetterà all’amministratore valutare se, dai comportamenti del beneficiario, sia desumibile la volontà di voler disattendere alle dichiarazioni precedentemente rilasciate.

 

7. I casi Englaro e Welby

Pur senza ripercorrere le drammatiche esperienze di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, appare utile una breve divagazione sul tema in ottica meramente giuridica, ancora una volta esulando da qualsivoglia riferimento etico o religioso.
Il 20 dicembre 2006 morì Piergiorgio Welby dopo che, su sua richiesta, gli fu staccato il respiratore artificiale. Ripercorrendo l’iter giurisprudenziale del quale si è ampiamente dato conto nei precedenti paragrafi, deve risultare evidente come rifiutare le terapie non possa essere minimamente associato all’eutanasia, in quanto la stessa cassazione del 2007 ha decretato che al cittadino DEVE essere sempre lasciata la facoltà di optare per il naturale decorso di un procedimento biologico che, eventualmente, possa anche condurlo alla morte, senza accanimenti terapeutici e senza alcuna forma di vita artificiale.
Emblema di tale distinzione fu proprio il caso Welby, che non fu minimamente un caso di eutanasia, bensì di rifiuto di terapie, peraltro espresso da un soggetto pienamente capace e lucido che era in grado di esprimere con coscienza il proprio consenso informato. In ciò si distinse il caso della giovane Eluana Englaro che a seguito di un incidente stradale, per 17 anni rimase in stato vegetativo persistente e permanente, aggrappata alla vita a mezzo alimentazione ed idratazione artificiali.
La Cassazione nel 2005 giudicò inammissibile il ricorso del padre/tutore, sostenendo che la tutela non poteva estendersi agli atti personalissimi; la Corte mutò orientamento a seguito del recepimento della Direttiva 2001/20/CE (sulla buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali ad uso umano) e del D.Lgs. 25 giugno 2003 n. 211 che attribuiva al rappresentante legale il potere di esprimere il consenso, direttiva poi completata dalla 2005/28/CE che estendeva tale previsione anche ai soggetti temporaneamente incapaci di intendere e di volere. La più volte citata Cassazione del 2007, che statuì sul caso di Eluana Englaro, concluse che “il rifiuto delle terapie, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia”; ma allora è giusto porsi una domanda: può l’uomo rifiutare un trattamento sanitario che, anche astrattamente, gli consenta di continuare a vivere? Tutti conveniamo (salva qualche, inevitabile, eccezione) che l’uomo, per il nostro ordinamento giuridico, non ha il diritto di darsi la morte (basti pensare al divieto, sancito dal codice penale, di istigare al suicidio: articolo 579 del codice penale:“chiunque causi la morte di un uomo con il consenso di lui, è punito con la reclusione da 6 a 15 anni”); ma l’art. 32 Cost. recita che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Da ciò trasse spunto la Suprema Corte del 16 ottobre 2007, n. 21748 (caso Englaro):

In tema di attività medico sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio nel quadro dell'"alleanza terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Né il rifiuto delle terapie medico chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”.

 

8. Conclusioni

Si ribadisca il suggerimento posto alla base del presente commento: pur aderendo alla teoria che tende ad ammettere la possibilità di nominare (oltre che di designare) un amministratore di sostegno per il tempo in cui si sarà (eventualmente) persa la capacità naturale di intendere e di volere, sembra consigliabile la posizione più attenta; sicché, per i casi sovra richiamati ed in base alle singole esigenze degli individui, sarà l’amministrazione di sostegno lo strumento idoneo al fine di designare un proprio legale rappresentante, al quale demandare i compiti inerenti alle disposizioni sulla propria salute, anche in merito ai trattamenti sanitari ai quali si voglia o non si voglia essere sottoposti.
La soluzione quivi proposta trova piena coerenza nella Raccomandazione UE n. 1418 sulla “Protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dei malati incurabili e dei morenti” del 25 giugno 1999, secondo cui il rappresentante legale del paziente può assumere in sostituzione dell’interessato decisioni basandosi su precedenti dichiarazioni formulate dal paziente stesso.
A scanso di equivoci, si consiglia di rivolgersi ad un Notaio, al fine di chiedergli di ricevere nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata la designazione del proprio amministratore di sostegno con tutte le possibili indicazioni in merito ai Trattamenti sanitari, ivi inclusi quelli inerenti al “fine vita”, a condizione che tali indicazioni non sfocino in un indiscriminato, quanto inammissibile, ricorso alla “dolce morte”.

 

 

 

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