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Mediazione

02 Maggio 2011 • di Patrizia Cipriano

La mediazione nelle controversie civili e commerciali

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In questo nostro primo contributo, abbiamo ritenuto opportuno analizzare la genesi di uno dei più interessanti provvedimenti legislativi degli ultimi anni, per favorirne una piena comprensione. A seguire, svilupperemo i temi dell’autonomia contrattuale e le controversie in materia bancaria, finanziaria e assicurativa, mentre un particolare approfondimento sarà dedicato agli aspetti procedurali.

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Sommario

  1. Mediazione e imprese: legislazione e sviluppo
  2. Il nuovo approccio al conflitto nelle relazioni commerciali tra imprese e tra impresa e consumatore

 

1. Mediazione e imprese: legislazione e sviluppo

Il termine “mediazione” deriva dal latino “mediatio-onis” che a sua volta trae origine dal verbo “mediare”, “essere nel mezzo”, “interporsi”, “mantenersi in una via intermedia”; tale parola si mostra particolarmente adatta a indicare un processo mirato a far evolvere dinamicamente una situazione di conflitto, aprendo canali di comunicazione in precedenza bloccati.
I primi segnali dell’imponente sviluppo della mediazione per risolvere un conflitto si sono avuti negli Stati Uniti per far fronte alla diffusa insoddisfazione nei confronti dell’organizzazione del sistema di giustizia, incapace di gestire il sovraccarico di contenzioso che affollava le Corti. In particolare, la nascita ufficiale della mediazione si colloca intorno al 1913.
Inizialmente fu introdotta nel Dipartimento del lavoro attraverso il servizio di conciliazione e si rivelò uno strumento molto efficace per la risoluzione di controversie lavorative. In seguito, la mediazione fu inserita anche in cause civili e nelle fattispecie in materia di divorzio (mediazione di divorzio).
Negli stessi anni le tecniche di ADR cominciano a farsi largo anche in Inghilterra, fin quando nel 1999 il Lord Chancellor’s Department pubblicò un discussion paper dal titolo «Alternative Dispute Resolution», che fu occasione di riflessione sulla riforma del processo civile inglese. Promotore della riforma che ha portato, poi, all’approvazione delle Civil Procedure Rules (CPR) fu Lord Woolf (Lord Chief Justice of England and Wales) il quale, preso atto della crisi in cui ormai da lunghi anni versava il processo civile, promuoveva il riconoscimento di ampi poteri di judicial case management (nota) .
Dagli anni Settanta e con maggiore enfasi negli anni Ottanta, la parola e il concetto di mediazione sono andati diffondendosi in Europa con ampiezza e profondità sempre crescenti, tanto da indurre Jean-François Six (1990) a definire questo periodo come “il decennio della mediazione(nota) .
Sulla scia del fenomeno anglo-americano delle ADR, la conciliazione stragiudiziale negli ultimi anni è stata oggetto di un «rinnovato interesse»(nota) anche in Italia ove all’entusiasmo del legislatore ha fatto inizialmente da contraltare un diffuso scetticismo.
Infatti, in Italia la conciliazione si è affermata nell’ordinamento giuridico e nella prassi solo molto più tardi e in ambiti settoriali e di scarsa applicazione pratica.
Concentrando l’attenzione in ambito imprenditoriale, alla fine degli anni ’70 la composizione non contenziosa delle liti è stata introdotta dal legislatore in ambito lavoristico, con la previsione di un tentativo (facoltativo) di conciliazione stragiudiziale divenuto obbligatorio nel 1998, ma che nella pratica non ha riscosso alcuna fortuna.
In seguito, occasione per promuovere la conciliazione stragiudiziale (in particolare di quella c.d. amministrata) come nuovo strumento di risoluzione delle controversie è stata la legge 29 dicembre 1993, n. 580 sul riordino delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, cui il legislatore ha assegnato alle stesse un ruolo primario nell’amministrazione della gestione alternativa dei conflitti tra imprese e consumatori o tra imprese stesse.
La legge 29 dicembre 1993, n. 580, dispone all’art. 2, comma 4 che “Le Camere di commercio, singolarmente o in forma associata, possano tra l’altro: a) promuovere la costituzione di Commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori e utenti”. Essa avrebbe così ratificato l’operato ormai consolidato di molte Camere di Commercio, che da tempo avevano costituito camere arbitrali e conciliative che, fino al 1993, erano rimaste prive di riscontri normativi (nota) .
Tale legge si sarebbe mossa nell’ottica di facilitare l’accesso alla giustizia di soggetti deboli, quali i consumatori e le piccole imprese, in una prospettiva di contenimento dei tempi, dei costi, e di semplificazione delle procedure, specie con riguardo alle controversie di scarso valore, ossia alla micro-conflittualità tra imprese e tra imprese e consumatori (nota) . Inoltre, con la stessa, il legislatore mirava a realizzare un effetto deflattivo dell’amministrazione della giustizia ordinaria (nota) .
Di fatto la previsione normativa non è rimasta una dichiarazione di principio, perché alla legge citata hanno fatto seguito altri provvedimenti legislativi che espressamente richiamano le commissioni conciliative istituite dalle Camere di Commercio.
Il primo intervento legislativo successivo alla l. n. 580/1993, in ordine cronologico, è stato quello istitutivo delle Autorità di regolazione per i servizi di pubblica utilità (l. 14 novembre 1995, n. 481 recante “Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità”), che ha imposto come obbligatorio il tentativo preventivo di conciliazione in materia di risoluzione delle controversie tra utenti e gestori dei servizi, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, attribuendo la relativa competenza alle Commissioni conciliative, oltre che arbitrali, istituite presso le Camere di Commercio (art. 2, 24º co., lett. b, l. n. 481/1995).
Tale previsione legislativa per lunghi anni è rimasta lettera morta sulla carta, fin quando, successivamente all’entrata in vigore della l. 31 luglio 1997, n. 249, istitutiva dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, sono stati adottati il Regolamento concernente la risoluzione delle controversie tra organismi di telecomunicazione (Delibera 148/01/CONS) e il Regolamento concernente la risoluzione delle controversie insorte nei rapporti tra organismi di telecomunicazione e utenti (Delibera 182/02/CONS), con la previsione, che il tentativo obbligatorio di conciliazione relativo a controversie tra utente e impresa dovesse svolgersi dinanzi al Comitato regionale per le Comunicazioni (Co.re.Com). La materia è stata poi oggetto della disciplina normativa del 2007 con un intervento, per ciò che concerne la conciliazione, che ha previsto la possibilità di portare le controversie dinanzi alle Camere di Commercio.
Questa tipologia di vertenze ha rappresentato il maggior numero di dispute fra consumatore e impresa affrontate in via alternativa rispetto alla soluzione giudiziale.
Una piana lettura dei regolamenti di conciliazione “c.d. paritetica” consente di rilevare che, nonostante l’espressa dichiarazione, contenuta nella maggior parte dei regolamenti, della conformità ai principi sanciti dalle Racc. 98/257/ CE e 2001/310/CE, il modello conciliativo paritetico sembra invece sacrificare quei principi che la Commissione Europea ha individuato e tra quelli, in particolare, il principio di equità di cui alla Racc. 2001/310/CE, garantito «se le parti sono informate del loro diritto di rifiutare o di recedere dalla procedura, anche per adire un tribunale ordinario; se le parti sono libere di presentare gli argomenti, le informazioni e le prove attinenti al caso; se le parti sono messe in grado di rispondere e presentare liberamente gli argomenti, su base confidenziale (salvo accordo contrario)... se entrambe sono incoraggiate a cooperare allo svolgimento della procedura, in particolare fornendo le informazioni necessarie al raggiungimento di un’equa soluzione»(nota) .
Aleggia, dunque, il dubbio che le grandi aziende abbiano tentato di piegare la conciliazione, di cui pare che nella conciliazione paritetica sia stato conservato soltanto il nomen e poco altro, a finalità più propriamente propagandistico - aziendali, tese a conquistare la fiducia dei clienti attraverso l’ascolto delle loro esigenze e senza alcun onere a loro carico, piuttosto che a un sincero interesse per il rafforzamento della tutela dei consumatori in linea con le scelte di politica legislativa dell’Unione Europea (nota) .
Gli altri interventi legislativi hanno interessato, per la maggior parte, i rapporti tra imprese e consumatori che rappresenta l’ambito più popolato di discipline, fin dalla legge in materia di servizi di energia e gas del 1995; l’art. 10, comma 1° della legge 18 giugno 1998, n. 192, recante Disciplina della subfornitura nelle attività produttive; l’art. 3, commi 2°, 3°, e 4° della legge 30 luglio 1998, n. 281, recante Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti; l’art. 4, comma 5°, della legge 29 marzo 2001, n. 135, recante Riforma della legislazione nazionale del turismo; l’art. 38, comma 2°, del D.Lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003, recante Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366; gli artt. 9 e 35, D.lg. 9 aprile 2003, n. 68 hanno introdotto gli artt. 71 quinquies, 4º co. e 194 bis, l. dir. aut. (l. 22 aprile 1941, n. 633) che prevedono l’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi ad una commissione speciale costituita nell’ambito del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore, che preceda le domande giudiziali relative alle controversie in materia di limitazioni ed eccezioni del diritto d’autore.
Nonostante lo sforzo del legislatore, per lungo tempo non si è registrato alcuno specifico intervento normativo in materia di conciliazione. Mentre, da un lato, il legislatore invitava insistentemente le parti a conciliare, dall’altro lato s’ignorava cosa fosse propriamente la conciliazione, come poteva attivarsi una procedura di conciliazione, chi fosse il conciliatore, quali fossero le conseguenze di un eventuale accordo di conciliazione e così via. Tutto era rimesso all’autonomia degli organismi deputati all’espletamento della conciliazione, ossia alle Camere di Commercio (nota) .
Soltanto con la riforma del diritto societario il legislatore ha rinnovato la fiducia nello strumento conciliativo consentendo, contestualmente al rafforzamento della conciliazione giudiziale, l’ingresso nel nostro ordinamento giuridico della disciplina della conciliazione stragiudiziale cui ha dedicato l’intero Titolo VI, D.Lgs. n. 5/2003, adottato in attuazione della delega contenuta al comma 4 dell’art. 12 della legge 366/2001, entrato in vigore il 1 gennaio 2004 e recentemente abrogato.
Il legislatore, in questa occasione, non si è limitato a prevedere semplicemente la possibilità di esperire un tentativo di conciliazione, ma si è preoccupato di introdurre un sistema di accreditamento degli organismi di conciliazione (art. 38). Quella delineata dal D.Lgs. 5/2003 era una forma di conciliazione amministrata in quanto era previsto che i litiganti si rivolgessero a un apposito organismo deputato alla gestione del relativo procedimento, dotato di una serie di requisiti attestati dal Ministero della Giustizia, che provvedeva alla nomina del terzo e alla gestione dell’intero procedimento.
Inoltre, il legislatore delegato aveva introdotto una serie di misure finalizzate a incentivare l’utilizzo della conciliazione, tra cui l’ammontare minimo e massimo delle indennità spettanti agli organismi di conciliazione costituiti da enti pubblici; i relativi criteri di calcolo erano stabiliti dal Ministero della Giustizia, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Per quanto riguarda gli organismi di conciliazione costituiti da enti privati, le relative tabelle di indennità dovevano ottenere l’approvazione ministeriale.
Imparzialità del terzo, riservatezza, speditezza e convenienza economica del procedimento, possibilità dell’accordo di acquisire efficacia di titolo esecutivo, rappresentavano le caratteristiche principali della c.d. conciliazione societaria.
L’abrogato decreto legislativo (d.lgs. 05/2003) prevedeva poi, che qualora il contratto o lo statuto della società contenessero una clausola di conciliazione rimasta inadempiuta, il giudice, su istanza di parte, disponesse la sospensione del procedimento fissando un termine perentorio per il deposito dell’istanza di conciliazione.
La disciplina della conciliazione amministrata prevedeva, inoltre, agevolazioni fiscali e profili salienti relativi all’efficacia della conciliazione (attribuzione di efficacia di titolo esecutivo al verbale di conciliazione per consentire l’esecuzione forzata, l’esecuzione in forma specifica e l’iscrizione di ipoteca giudiziale), al rapporto tra questa e l’eventuale processo.
A tale intervento legislativo è seguito un rapido effetto imitativo che ha reso in breve tempo la disciplina della conciliazione stragiudiziale modello normativo di riferimento per tutti i fenomeni conciliativi previsti dal legislatore nei diversi settori successivamente regolamentati. Infatti, l’art. 7 della legge 6 maggio 2004, n. 129, recante Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale, contiene un espresso riferimento alla conciliazione stragiudiziale societaria, da ultimo richiamata dall’art. 27 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 recante Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, così come l’art. 2 della legge 14 febbraio 2006, n. 55 in materia di patto di famiglia, richiama gli organismi di conciliazione di cui all’art. 38 del D.Lgs. n. 5/2003.
La disciplina generale delle relazioni con i consumatori prima (1998) e il codice del consumo poi, hanno identificato la conciliazione come strumento per la risoluzione delle controversie fra consumatore e professionista su richiesta delle parti contraenti o delle associazioni di categoria.
Così, la l. n. 84/2006, sull’attività di imprese di tinto lavanderia, ha disposto lo svolgimento della conciliazione presso le Camere di Commercio.
Un’attenzione particolare è stata, altresì, rivolta dal legislatore con relazione alle controversie del mercato dell’intermediazione finanziaria (D.Lgs. n. 179/2007) delegato dalla legge sul risparmio del 2005 che prevede il ricorso alla conciliazione o all’arbitrato quali strumenti di composizione delle controversie sorte tra risparmiatori e intermediari per la violazione da parte degli intermediari degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza, e istituisce la Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob.
Il quadro dell’ordinamento giuridico, si presenta, dunque, estremamente vario, discontinuo e frammentario. Sia che si tratti di relazioni contrattuali tra imprese che di rapporti tra impresa e consumatore, la materia è piuttosto dinamica. La continuità dei rapporti di durata, o di possibile rinnovazione continua, rilevabile nella maggior parte delle relazioni sostanziali tra imprese o tra imprese e consumatore, è considerata alla stregua di un terreno ideale per l’introduzione della conciliazione come modello efficace di risoluzione delle dispute (nota) .
Il legislatore, nel corso degli anni, venendo a contatto con la realtà imprenditoriale ha ritenuto di poter accogliere tale strumento.
Tuttavia, il primo vero cambiamento verso l’effettivo utilizzo della mediazione è stato il D.Lgs. 28/2010. Una prima elencazione degli elementi di novità della recente normativa è insito nell’obiettivo stesso della norma che è quello di disciplinare la composizione delle controversie civili e commerciali in termini generali.
Dopo che per molti anni la conciliazione stragiudiziale è stata oggetto di interventi legislativi in ambiti settoriali, si è ritenuto opportuno creare una norma di carattere generale che portasse la conciliazione a essere uno strumento potenzialmente valido per la gestione di qualunque controversia civile e commerciale.
È stata altresì prevista la configurazione della conciliazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la costituzione di organismi di conciliazione anche presso i Consigli degli Ordini degli Avvocati, la facoltà del giudice di invitare le parti a tentare una composizione stragiudiziale della lite valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, la presenza di sedi organizzate estranee alla logica organizzata ove il conflitto si formalizza (nota) , che rappresenta il probabile sviluppo per la creazione di una prassi conciliativa.
Peraltro, nonostante il D.Lgs. 28/2010 preveda di imporre il tentativo di conciliazione nelle materie espressamente indicate all’art. 5, le parti rimangono libere di non raggiungere alcun accordo, non perdendo le utilità del processo; infatti, la domanda di mediazione produce gli stessi effetti della domanda giudiziale sulla prescrizione e sulla decadenza, salvo l’ipotesi in cui l’effetto debba operare anche nei confronti dei terzi, si pensi all’interruzione dell’usucapione, nel qual caso occorrerà procedere alla trascrizione della domanda giudiziale, peraltro consentita espressamente dal decreto (nota) .
Inoltre, il procedimento di mediazione non osta alla concessione di provvedimenti urgenti e cautelari.
Alla luce di quanto esposto appare auspicabile che tale revisione, permetterà alla conciliazione di divenire un fenomeno organizzato.

 

 

2. Il nuovo approccio al conflitto nelle relazioni commerciali tra imprese e tra imprese e consumatore

Con il D.Lgs. 28/2010 la scelta del legislatore appare giustificata dall’intento di allargare il più possibile l’ambito di applicazione, limitato solo dall’indisponibilità dei diritti in lite (nota) .
Infatti, il decreto non evidenzia alcuna differenza tra le categorie generali delle controversie commerciali e di quelle civili.
La tecnica adottata dal legislatore è stata quella di affiancare le controversie civili e commerciali in particolari materie espressamente elencate, sia nell’ipotesi in cui lo strumento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, sia nell’ipotesi in cui il tentativo di conciliazione sia previsto da una clausola contrattuale o statutaria.
La trattazione “unitaria” della materia dei contratti tra imprese e tra imprese e consumatori non tiene conto delle peculiari caratteristiche di ciascuno dei fenomeni considerati, della natura oggettiva sostanziale oltre che oggettiva formale, che permette di attribuire un risultato adeguato alle stesse anche nell’ottica delle diverse tecniche di risoluzione dei conflitti.
Nelle controversie tra imprese, aspetto rilevante viene assunto dal contratto, che è esso stesso prodotto e strumento dell’attività, la quale non può non rispecchiare, per il fatto che opera nel mercato, i relativi mutamenti (nota) .
È noto, che la distribuzione del potere contrattuale influenza la crisi del contratto e i modi di governo del mutamento e delle sue conseguenze nelle relazioni commerciali di durata: dalla mera possibilità che una delle imprese contraenti non trovi più economicamente conveniente cooperare con l’altra, fino all’eventualità che si producano eventi imprevisti che influenzano l’adempimento contrattuale.
L’attività di impresa, dunque, è fisiologicamente influenzata dal mercato in cui opera almeno uno dei contraenti, dalla dinamicità dell’attività ed è per sua stessa natura instabile, dunque, richiede un approccio al conflitto che non può non riflettere le esigenze tipiche di un contraente competitivo.
Nelle relazioni tra impresa e consumatore, invece, la differenza è rappresentata dalla presenza di un contraente, il consumatore, non professionale, un soggetto che opera sul mercato del consumo per fini personali, inesperto e distaccato dalle logiche imprenditoriali, tant’è che la peculiarità della situazione ha richiamato l’attenzione del legislatore verso la costruzione di un sistema che prevedesse la tutela del contraente debole nelle transazioni commerciali e che si trova in una situazione di squilibrio.
E in quest’ottica, che assume rilevanza la pratica conciliativa come scelta privata di approccio al conflitto.
Il legislatore punta, infatti, al ristoro delle ragioni del contraente più debole attraverso il riconoscimento ad agire tramite le associazioni di categoria dei consumatori e degli utenti, dando così la possibilità di risolvere il conflitto utilizzando lo strumento della conciliazione, prima del ricorso alla giurisdizione ordinaria.
Ciò spiega il perché l’art. 5 del D.Lgs 28/2010 abbia previsto all’art. 5, comma 1, ultimo periodo che “il presente comma non si applica alle azioni previste dagli artt. 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 e successive modificazioni”.
Secondo tale disposizione, non è obbligatorio l’esperimento del tentativo di mediazione preliminarmente alla proposizione dell’azione inibitoria disciplinata dall’art. 37 del codice del consumo, proposta dalle associazioni dei consumatori, rappresentative dei professionisti, dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura nei confronti del professionista o dell’associazione di professionisti che utilizzino o raccomandino l’utilizzo di condizioni generali di contratto in cui sia accertata l’abusività (c.d. clausole vessatorie).
Peraltro, non è obbligatorio, che i soggetti esperiscano il tentativo di mediazione prima di proporre, a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti, le azioni giudiziali volte a “inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti”, secondo la lettera 1 dell’art. 140; a “adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate”, secondo la lettera b) comma 1 dello stesso articolo; a ottenere l’ordine di “pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”, secondo la lettera c) del medesimo comma 1.
Inoltre, non è obbligatorio il previo esperimento del tentativo di mediazione per la proposizione della “azione di classe”, di cui all’art. 140-bis del codice del consumo (nota) .
La conciliazione nasce come procedimento per facilitare la tutela richiesta dal consumatore, comportando libertà di accesso al servizio, libertà di adesione alle soluzioni che si prospettano, tempi rapidissimi per la definizione dell’iter, costi ridotti e, soprattutto, lasciando impregiudicati il diritto del consumatore di ricorrere al giudice ordinario.
Inoltre, sotto il profilo ermeneutico - evolutivo, si deve considerare il testo della direttiva n. 93/13/CE per accorgersi che la preoccupazione del legislatore comunitario è stata quella di evitare pattuizioni di tipo obbligatorio in materia di ricorso all’autorità giudiziaria che predisposte unilateralmente dal professionista, avessero come effetto di costringere il consumatore a rivolgersi a forme di giudizio private, senza le tutele previste dal processo ordinario (nota) .
Così pure, rimane esclusa dall’ambito di applicazione dell’art. 5 del decreto 28/2010, la conciliazione delle controversie in materia di telecomunicazione recentemente disciplinata dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (l. n. 249/2007), con regolamento di procedura per la soluzione delle controversie tra utenti e operatori di comunicazioni elettroniche (Delibera n. 173/07/CONS, in seguito modificato con Delibere 95/08/CONS, 502/08/CONS, 271/09/CONS e 479/09/CONS), applicate alle procedure avviate dal 24.6.2007. L’utilizzo di tale procedura è oggi richiamato nel Codice delle comunicazioni elettroniche (D.Lgs. 253/2009) (nota) .
La Corte di Giustizia, con sentenza C-3127/08 del 18 marzo 2010, chiamata a decidere sul possibile contrasto con le norme comunitarie dell’obbligo di mediazione previsto dal regolamento di procedura per la soluzione delle controversie tra utenti e operatori di comunicazione elettroniche, ha affermato che tale procedura è in linea con il diritto europeo.
In definitiva, l’esclusione di tali materie dal novero del decreto 28/2010, deriva dall’opportunità di contemperare le esigenze di autonomia delle parti con la necessità di protezione di interessi “superindividuali”, evitando in queste specifiche ipotesi di differire nel tempo la proposizione di una domanda giudiziale della parte danneggiata (nota) .
Dalla tortuosa strada scelta dal legislatore delegato per delimitare i confini di cui all’art. 5 del decreto, sembra potersi desumere che il solo consumatore di prodotti finanziari, assicurativi e bancari che intenda agire individualmente in giudizio per la tutela dei propri diritti, debba esperire il procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale; mentre i contraenti delle banche devono tentare il procedimento previsto dall’art. 128 bis del decreto n. 385/1993 in materia di operazioni bancarie; gli investitori devono tentare la conciliazione secondo il procedimento previsto dal decreto n. 179/2007, per le materie ivi indicate; gli utenti delle telecomunicazioni devono tentare la conciliazione (anche presso i CORECOM); i consumatori genericamente intesi possono individualmente attivare la mediazione ai sensi dell’art. 141 del codice del consumo, o avvalendosi dell’iniziativa facoltativa delle associazioni di categoria ai sensi dell’art. 140 del Codice del consumo.
Dunque, non si può evitare di acquisire la consapevolezza del fatto che qualsiasi approccio allo studio della mediazione è inevitabilmente condizionato dalla sostanza del rapporto all’origine del conflitto, poiché la mediazione è fenomeno che anziché interrompere la vita di tale rapporto si pone in continuità con questo, impiega gli stessi mezzi e risolve ancora gli interessi propri della sfera privata dei soggetti coinvolti (nota) .

 

 DOI 10.4439/pfs1

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