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10 Maggio 2011 • di Patrizia Cipriano

La mediazione: autonomia contrattuale e analisi delle controversie in materia finanziaria

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Oltre alle controverse espressamente regolate dal D.Lgs 28/2010, le parti possono prevedere nello statuto o nell’atto costitutivo una clausola di mediazione o conciliazione. Questa possibilità è un'ulteriore conferma che l’utilizzo del contratto, quale strumento di autodeterminazione dell’individuo, si sta affermando nei più disparati settori dell’ordinamento giuridico.

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Sommario

  1. L’autonomia contrattuale e i vantaggi per le imprese
  2. Le controversie in materia bancaria, finanziaria e assicurativa
  3. La conciliazione stragiudiziale delle controversie nei contratti di franchising

 

1. L’autonomia contrattuale e i vantaggi per le imprese

Le dispute tra imprese che hanno a oggetto il contratto di affitto di azienda, così come le controversie di natura assicurativa, bancaria e finanziaria, sono disciplinate dall’art. 5 comma 1 del D.Lgs. 28/2010, in cui l’esperimento del tentativo di conciliazione è obbligatorio ai fini della procedibilità della domanda giudiziale.
Rimangono, inoltre, in vigore, ai sensi dell’art. 23 del decreto, il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di contratti agrari e il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di contratti di subfornitura (l. 192/1998).
Per tutti gli altri contratti l’art. 5, comma 5 del D.Lgs. afferma che “Fermo quanto previsto al comma 1 e salvo quanto disposto ai commi 3 e 4, se il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art. 6. Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non sono conclusi. La domanda è presentata davanti all’organismo indicato dalla clausola, se iscritto nel registro, o in mancanza, davanti ad un altro organismo iscritto, fermo il rispetto del criterio di cui all’art. 4, comma 1. In ogni caso le parti possono concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto”.
In sostanza, nelle materie di cui all’art. 5 il ricorso al mediatore civile diviene obbligatorio, mentre è facoltativo in tutti gli altri casi.
In un’epoca in cui l’autonomia privata va conquistando sempre maggiori spazi di operatività, l’utilizzo del contratto quale strumento di autodeterminazione dell’individuo si afferma nei più disparati settori dell’ordinamento giuridico: investito da questo fenomeno di progressiva «contrattualizzazione» appare anche il settore giudiziario, in cui emergono nuove forme di risoluzione delle liti rimesse all’autonomia contrattuale delle parti in conflitto che, per mezzo di atti negoziali, si danno delle regole o, meglio, autoregolamentano i propri interessi.
Infatti, anche nelle ipotesi in cui non è previsto a pena di improcedibilità, il tentativo di mediazione può comunque diventare obbligatorio per volontà delle parti, inserendo nel contratto, nello statuto o nell’atto costitutivo dell’ente una clausola di mediazione o conciliazione, prima di adire l’autorità giudiziaria.
Una volta inserite nel contratto, le parti potranno del tutto liberamente ampliare o limitare l’efficacia delle clausole di conciliazione, potendo le stesse essere contenute tanto nel corpo del contratto, oppure in un atto separato che richiami in modo integrale il contenuto dell’atto cui si riferisce.
La clausola di conciliazione non costituisce patto accessorio al negozio sostanziale, ma un’autonoma dichiarazione di volontà, con la conseguenza che eventuali vizi del contratto non potranno automaticamente riverberarsi sull’efficacia della stessa.
A livello internazionale, sono molto diffuse clausole di risoluzione delle controversie multi - iter, ossia clausole che contemplano la possibilità di più fasi nel tentativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie partendo da un primo step informale di negoziazione per poi passare, in caso di insuccesso, a forme più strutturate di ADR, sino ad arrivare in ultima istanza all’arbitrato.
Il problema si pone in caso di inadempimento alla clausola di conciliazione. Da più parti, soprattutto in Europa, sono state auspicate riforme processuali che consentano di attribuire efficacia alle clausole di conciliazione non solo all’interno del rapporto contrattuale fra le parti, ma anche all’esterno, con speciale riferimento al procedimento giurisdizionale che una delle parti, incurante del proprio obbligo, abbia inteso instaurare.
L’argomento è stato affrontato a più riprese dalla giurisprudenza britannica, che ha preso in considerazione la questione se le parti, che si siano obbligate contrattualmente a risolvere in via conciliativa le eventuali controversie nascenti dal negozio, siano libere di non dare seguito all’accordo e, di conseguenza, adire direttamente i giudici ordinari (nota) .
In un caso, i giudici hanno affermato che la parte che si rifiuti di dare esecuzione alla clausola di conciliazione contenuta nel contratto e si rivolga direttamente alla giustizia ordinaria, deve dimostrare di aver avuto delle buone ragioni per agire in questo modo (nota) .
Anche la giustizia francese, si è posta più volte il problema del valore obbligatorio della clausola di conciliazione inserita in un contratto. La questione è stata risolta dalle Sezioni Unite (nota) che hanno affermato che “la clausola contrattuale che prevede una procedura di conciliazione obbligatoria e preventiva all’azione ordinaria, la cui attivazione sospende, fino alla conclusione della procedura stessa, il decorrere della prescrizione, costituisce una condizione di irripetibilità che si impone al giudice, nel caso in cui le parti la invochino”.
A livello internazionale, quindi, la tendenza è nella direzione di ritenere vincolanti per le parti clausole di conciliazione che le stesse parti avevano contrattualmente, ed espressamente, considerato come condizioni di procedibilità.
Nel nostro ordinamento, il legislatore, nel prevedere come obbligatori alcuni dei procedimenti di conciliazione extragiudiziali, ha affrontato più volte il problema delle conseguenze processuali del mancato esperimento del tentativo di conciliazione.
Relativamente alle conciliazioni obbligatorie per accordo tra le parti, il legislatore, dopo un primo “esperimento” ora abrogato nell’ambito delle controversie di tipo societario, con il D.Lgs. 28/2010 ha previsto che il giudice o l’arbitro, a fronte del mancato esperimento del tentativo di conciliazione e solo su eccezione di parte, dovrà assegnare alle parti un termine di quindici giorni per la proposizione della domanda di mediazione e fissare l’udienza successiva non prima di quattro mesi.
Il deposito della domanda di mediazione deve avvenire davanti all’organismo scelto nel contratto, se è iscritto al registro del Ministero della Giustizia, o in mancanza, ad altro iscritto e le parti possono comunque concordare di ricorrere a un organismo diverso da quello indicato nella clausola.
La previsione di una clausola di mediazione nei contratti permette, infatti, di predeterminare tra le parti alcune caratteristiche del procedimento di mediazione e ciò potrebbe rivelarsi utile non solo nei casi di mediazione facilitativa, ma anche in talune ipotesi di previste come obbligatorie ex art. 5, 1° comma (nota) .
Si tratta di una previsione importante destinata ad avere un impatto nella nostra prassi contrattuale e nella gestione delle modalità di risoluzione delle controversie.
Sicuramente in Italia, l’utilizzo dello strumento della conciliazione da parte delle imprese sta divenendo sempre più interessante. Promotrice, in tal senso, è stata l’esperienza anglosassone che da decenni assiste al coinvolgimento delle grandi società in procedure di ADR e che lentamente si sta imponendo nel resto del mondo.
L’accesso, alcuni anni addietro da parte della Microsoft, al tentativo di conciliazione in una controversia di rilevanza mondiale, ha rappresentato certamente un momento di forte sviluppo del fenomeno conciliativo a livello imprenditoriale che ha spinto le imprese a prendere in considerazione tale alternativa (nota) .
In Italia il caso più frequentemente citato in materia di ADR è quello della “GE Oil & Gas” che ha sviluppato una policy aziendale che prevede, in caso di potenziale contenzioso, il ricorso allo strumento preventivo delle procedure di ADR. Tale nuovo approccio alla lite consente di ottenere rilevanti risparmi di gestione del contenzioso sia in termini di costi sia di processi economici più rapidi ed efficaci.
Appare evidente che fare uso di pratiche negoziali di approccio al conflitto non può far altro che contribuire a restituire alle imprese ciò che serve per una gestione efficiente della crisi nelle relazioni commerciali.
Radicare la pratica conciliativa nell’ordinamento delle relazioni commerciali, significa muovere la prassi imprenditoriale verso scelte e comportamenti consapevoli ed efficienti e favorire un processo di crescita delle imprese.
Peraltro, consegnare alle imprese strumenti efficaci di soluzioni delle liti ha un indubbio riflesso sulla portata del diritto applicabile ai contratti di impresa; un diritto che diviene l’ultima ratio nella gestione della crisi contrattuale, ed esperibile solo nel caso in cui la strada negoziale risulti impraticabile. Si apre, così, la strada per una nuova concezione dello strumento contrattuale che attenui i caratteri di regolazione chiusa e rigida propri dei sistemi di civil law (nota) .
Le imprese e i loro professionisti hanno allora bisogno di acquistare la consapevolezza che gli accordi commerciali creano rapporti in divenire. Ai tradizionali interventi sul contratto che riguardano l’inserimento di clausole di rinegoziazione, cioè la previsione di meccanismi di controllo dell’equilibrio contrattuale e di gestione preventiva e successiva dei conflitti, risulta necessario determinare clausole di mediazione quali strumenti efficaci di approccio al conflitto su un piano di continuità della relazione commerciale e in evoluzione rispetto a essa (nota) .
Dopo l’emersione del conflitto, la conciliazione e gli altri strumenti di negoziazione diventano fondamentali per la ricerca di un nuovo equilibrio che consenta il proseguimento del rapporto ove possibile e ove realmente voluto, o la chiusura del rapporto ove improseguibile. Queste alterative, essendo frutto di una scelta negoziata, risulteranno meno rovinose possibili.

Il D.Lgs. tuttavia, nonostante una prospettiva ipoteticamente positiva, ha omesso molti ambiti relativi ai rapporti commerciali. Si pensi ai contratti di appalto, di affiliazione commerciale, ai contratti di rete, di consorzio per lo svolgimento in comune di una parte dell’attività, i contratti di marchi e brevetti e di licenza.
Considerazioni simili sono possibili a proposito delle dispute in ambito societario, di cui al D.Lgs 5/2003, che sono poi trasmigrate sotto la disciplina dell’art. 5 del D.Lgs 28/2010.


2. Le controversie in materia bancaria, finanziaria e assicurativa

L’art. 5 del D.Lgs 28/2010 ha incluso l’esperibilità del procedimento di mediazione ai fini della conciliazione, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziaria attribuendo natura obbligatoria anche ad alcune tipologie contrattuali: i contratti bancari, finanziari e assicurativi, prevedendo che “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto prelimiarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’art. 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate” .
Occorre preliminarmente precisare che l’art. 33 del D.Lgs. 28/2010 ha abrogato gli artt. da 38 a 40 del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n.5, in tema di conciliazione societaria, prevedendo rinvii genericamente operati alla legge, e tali articoli abrogati si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del decreto 28/2010.
Si noti che il tenore letterale dell’art. 5 comma 5 del D.Lgs. 28/2010 in tema di clausola di mediazione volontaria, riproduce l’abrogato art. 40 del D.Lgs. 5/2003 in materia di conciliazione societaria; tuttavia quest’ultimo ha una portata più ampia in quanto prevede la possibilità di inserire una clausola di conciliazione nel testo contrattuale che prescinde dall’elencazione del comma 1 dell’art. 5 e non è riferita al solo contratto costitutivo di società.
I contratti bancari, finanziari e assicurativi, oltre a sottendere rapporti duraturi tra le parti, analogamente a quanto indicato al punto 1 del decreto, si qualificano per diffusione di massa e sono alla base di una parte rilevante del contenzioso.
Si tratta di materie nelle quali il conflitto, per quanto possa essere circoscritto a una singola condotta lesiva del diritto, sorge nella gran parte dei casi all’interno di un rapporto che si svolge nel tempo, che è esposto ad accadimenti esterni e a una serie di più o meno prevedibili sopravvenienze future.
Peraltro, in controversie di questo tipo, molto spesso l’investitore, soggetto privato, viene a trovarsi in una posizione di difficoltà nel comprendere la qualità dell’investimento, l’offerta prospettata dall’intermediario e ciò per mancanza di competenza in materia. In sostanza, pur godendo di un ingente mole di informazioni, il contraente privato non raggiunge la competenza necessaria per interpretare consapevolmente le informazioni ricevute (nota) .
Dinnanzi a tale asimmetria informativa, si è tentati di assegnare al contraente non esperto un forte grado di tutela che si articola tra rimedi invalidativi e risarcitori.
Il recente istituto della “conciliazione stragiudiziale” in materia societaria commerciale e di intermediazione finanziaria e bancaria, ha introdotto nell’ordinamento la possibilità per le parti di risolvere la controversia insorta, davanti a speciali organismi conciliatori con una transazione contrattuale.
Raggiunto l’accordo, il successivo decreto del presidente del tribunale potrà avere efficacia di titolo esecutivo ed essere eseguito coattivamente (artt. 474 c.p.c. e 1, 38 e 40 D.Lgs. 5 del 2003).
Ancora una volta l’efficacia di titolo esecutivo viene subordinata a un’attività giurisdizionale, con il diverso vantaggio che le parti, per ottenere la sicurezza coattiva della transazione, non sono più costrette a instaurare la controversia giudiziaria. È stato previsto che quando sia in corso il processo davanti al giudice ordinario, quest’ultimo su eccezione di parte in prima difesa, dovrà sospendere il giudizio in attesa che si dia ingresso alla procedura di conciliazione perché essa costituisce un mezzo per ottenere un titolo esecutivo alternativo alla sentenza, che la legge privilegia anche per motivi di deflazione del contenzioso giudiziario.
Peraltro, pendente la “conciliazione stragiudiziale”, i termine di prescrizione si sospendono e non si verificano decadenze in quanto la conciliazione amministrata è un mezzo alternativo alla lite giudiziaria che pertanto ha gli stessi effetti sospensivi e interruttivi di questa (art. 40 comma 4 D.Lgs. 5 del 2003 ora abrogato e sostituito dal D.Lgs 28/2010).
In maniera identica è previsto anche il caso di lite insorto tra investitori e intermediari in materia di violazione degli obblighi informativi e di correttezza e trasparenza contrattuale in cui la “conciliazione stragiudiziale” potrà avvenire mediante gli speciali organismi conciliativi e mediante istanza alla Camera di conciliazione di cui al Reg. CONSOB (artt. 4 e 14 Reg. CONSOB 5 gennaio 2009 in attuazione dell’art. 2 D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179).
Conforme è anche il Testo Unico Bancario laddove l’art. 128-bis statuisce che le Banche e gli Intermediari finanziari in genere debbono aderire ai “sistemi di risoluzione stragiudiziale” delle controversie insorte con la clientela.
Peraltro, in tal senso, è ampia la delega al Governo di cui all’art. 60, l. n. 69 del 2009 (nota) .
L’archetipo della “conciliazione stragiudiziale” è rappresentato dal procedimento di cui agli artt. 38 ss. D.Lgs. n. 5 del 2003 (ora abrogati e sostituiti dal D.Lgs 28/2010). E in quella sede era stato correttamente previsto che la “conciliazione stragiudiziale” fosse soltanto facoltativa tanto che il ricorso a questa forma di conciliazione amministrata doveva essere necessariamente frutto di un accordo contrattuale e ciò nel senso che la parte che riceveva la comunicazione dell’istanza di conciliazione poteva aderire alla stessa presentandosi o non aderire rimanendo assente.
Con il D.Lgs. 28/2010 il tentativo di conciliazione diviene obbligatorio, in quanto condizione di procedibilità della domanda giudiziale eventualmente proposta.
Ovviamente, nel caso in cui una delle parti non intenda conciliare, l’altra non potrà costringerla, ma del mancato accordo verrà redatto processo verbale che verrà valutato dal giudice incaricato della controversia, anche ai fini delle spese ex art. 13 D.Lgs. 28/2010.
Anche la “conciliazione stragiudiziale” Reg. CONSOB cit. prevede che l’investitore - che è peraltro unico legittimato attivo ex art. 7 - possa presentare istanza di conciliazione, alla quale l’intermediario può o meno aderire ai sensi dell’art. 8.
In questo caso è stato esattamente evitato di ripetere la norma che nella disciplina di cui all’art. 38 ss. D.Lgs. n. 5 del 2003 stabilisce una coazione indiretta alla partecipazione alla conciliazione stragiudiziale e precisamente laddove consente al giudice della causa di valutare la non adesione alla conciliazione amministrata con riguardo al regolamento finale delle spese processuali, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c. e dell’irripetibilità di esse a favore della parte vittoriosa.
L’art. 40, comma 1, D.Lgs. 5/2003 (ora abrogato e sostituito dal DLgs 28/2010) disponeva che la scelta del conciliatore doveva garantire innanzitutto la sua imparzialità e quindi la sua idoneità a garantire il corretto e sollecito espletamento dell’incarico.
Una disposizione analoga è peraltro contenuta all’art. 9, comma 1 e 4, Reg. CONSOB citato soltanto con riferimento alla necessità che il conciliatore nominato sia idoneo a garantire sollecitudine nello svolgimento dell’incarico mentre, almeno espressamente, sono scomparsi i requisiti dell’imparzialità e della correttezza.


3. La conciliazione stragiudiziale delle controversie nei contratti di franchising

Il decreto legislativo 28/2010 non coglie quanto avrebbe potuto, in quanto, pur aprendo la strada all’obbligatorietà del tentativo di conciliazione in alcune materie, ha inspiegabilmente ritenuto di lasciarne fuori altre, relative a forme di collaborazione commerciale ugualmente importanti. Si pensi alla disciplina dei contratti di appalto, di affiliazione commerciale, ai contratti di rete, di consorzio per lo svolgimento in comune di una parte di attività, ai contratti di licenza di marchi e brevetti.
In particolare, il contratto di franchising è disciplinato dall’art. 7, della l. 6 maggio 2004, n. 129, recante norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale, che così recita: «per le controversie relative ai contratti di affiliazione commerciale le parti possono convenire che, prima di adire l’autorità giudiziaria o ricorrere all’arbitrato, dovrà essere fatto un tentativo di conciliazione presso la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede l’affiliato. Al procedimento di conciliazione si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli artt. 38, 39 e 40, d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 e successive modificazioni».
La norma, rappresenta l’ennesima riprova della «strategia di favor per le procedure ADR» che ispira l’azione del legislatore (nota) , ed è palesemente finalizzata a realizzare un effetto deflattivo del contenzioso.
Naturalmente, il legislatore, consapevole che il rapporto tra le imprese è uno dei settori privilegiati per lo sviluppo della conciliazione (nota) , vuole anche dare una risposta al disagio del mondo delle imprese per i tempi e i costi della giustizia civile.
Si è alla presenza di un tentativo di conciliazione meramente facoltativo, e non obbligatorio (nota) : le parti «possono» inserire nel contratto una clausola di conciliazione; ancora, nell’art. 38, comma 1°, D. Lgs. n. 5 del 2003, richiamato dall’art. 7, proposizione seconda, l. n. 129 del 2004, si parla di organismi di conciliazione deputati a gestire un tentativo di conciliazione «su istanza della parte interessata»; infine, ai sensi dell’art. 40, comma 6°, D. Lgs. n. 5 del 2003, richiamato sempre dall’art. 7, proposizione seconda, l. n. 129 del 2004, qualora il contratto di affiliazione commerciale preveda una clausola di conciliazione, e il tentativo non risulti esperito, il giudice dispone la sospensione del procedimento pendente davanti a lui «su istanza della parte interessata proposta nella prima difesa».
La norma sembra contemplare un’ipotesi di competenza territoriale inderogabile, al fine di favorire l’affiliato, contraente debole, consentendogli una più agevole ed economica gestione del procedimento di conciliazione (nota) .

  

DOI 10.4439/pfs4
 

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