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02 Maggio 2011 • di Renato Votta

Il capitale intellettuale in azienda: misurazione e classificazione degli asset intangibili

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Nel futuro il reale valore di un’impresa dipenderà sempre più dai suoi asset intangibili, mentre diminuirà contestualmente e si potrebbe dire automaticamente, l’importanza relativa degli asset tradizionali.
Basta un dato elaborato da “Standard & Poor’s” per chiarire quest’affermazione: nell’anno 2000 il rapporto tra il valore di mercato delle aziende quotate e il loro valore contabile è stato superiore a sei. Questo significa che un’impresa non può essere letta e interpretata solo con gli indicatori economico-finanziari tradizionali e “ortodossi”.
Esiste un profondo “gap” tra mercato e valori contabili ed esso è rappresentato proprio dal capitale intellettuale, ossia dagli asset intangibili. Gli analisti finanziari dovranno allora imparare ad apprezzare e misurare il valore del capitale umano per arrivare a valutazioni aziendali davvero complete e onnicomprensive.
I fattori soft di un’organizzazione non solo rappresentano la fonte del vantaggio competitivo, ma devono costituire oggetto di rilevazione e quantificazione secondo metodologie quanto più possibile scientifiche e universalmente riconosciute. In questo primo intervento inquadro i concetti di definizione, misurazione e classificazione degli intangibles. Nel mio prossimo secondo contributo, a completamento, approfondirò l’analisi degli indicatori di bilancio del capitale intellettuale.
 

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Sommario

1. Definizione e misurazione di capitale intellettuale
2. Principali metodi di misurazione degli asset intangibili
2.1. Market to book value
2.2. “Q” di Tobin
2.3. Calculated intangible value o “Civ”
3. La classificazione degli asset intangibili

 

 

1. Definizione e misurazione di capitale intellettuale

Una delle più comuni definizioni di capitale intellettuale è quella che vi include tutte le conoscenze a disposizione delle persone di un’azienda e che possono generare vantaggio competitivo.
Ma capitale intellettuale e persone non sono la stessa cosa. E non basta stanziare cifre più consistenti sulla formazione e l’aggiornamento professionale per essere al passo con i tempi. Il capitale intellettuale trae origine dalle conoscenze delle persone, ma si rende concreto in strutture organizzative di tipo interno e relazionali di tipo esterno. Il patrimonio della stima acquisita presso clienti, fornitori, enti esterni, in tal senso, è sicuramente una componente del capitale intellettuale.
Più in generale, allora, si può dire che esso è costituito da quell’insieme di conoscenze, know-how, relazioni, processi che permettono all’azienda di esistere e di fare profitti.
Nell’attuale normativa civilistica e fiscale di bilancio, l’unica voce che, in qualche modo, può essere assimilata al concetto di capitale intellettuale è rappresentata dall’avviamento, o goodwill. Esso indica il “sovra reddito” che un’azienda è in grado di creare, rispetto al reddito considerato “normale”, in forza e in virtù di una serie di conoscenze, di relazioni e di altri fattori come ubicazione geografica, organizzazione interna ed esterna, ecc.
Ma se da un punto di vista meramente concettuale, avviamento e capitale intellettuale, così com’è stato su definito, hanno numerosi elementi di affinità, è al momento dell’iscrizione di tale asset in bilancio che il problema si pone in tutta la sua complessità. Utilizzando i soliti parametri del reddito, del capitale, del tasso d’interesse, attraverso formule più o meno sofisticate di matematica finanziaria, si arriva a una quantificazione secondo metodi contabili di un asset che, per sua natura, richiede ulteriori e diversificati strumenti valutativi. La misurazione del capitale intellettuale è una prassi recente e in continua evoluzione, ma è già possibile proporre alcune tecniche già adottate, che riescono a ridurre e circoscrivere il rischio di arbitrarietà e inaffidabilità che sempre si corre quando si vuole attribuire un valore monetario a entità astratte e intangibili.
Tali tecniche, alcune di natura contabile e altre di natura completamente diversa, non permettono di arrivare a una quantificazione univoca e oggettiva, ma definiscono una sorta di rating entro cui si individua un valore.
I metodi “contabili” sono principalmente l’Eva (Economic Value Added), il Q di Tobin, il Market to Book Ratio e il Rei (Risultato economico integrato). Essi vanno integrati e arricchiti dai metodi di tipo organizzativo e sociale, che forniscono una serie d’indicatori tratti dai principali elementi non contabili generatori di valore aziendale. Dal matching di queste due tipologie di approcci si riesce, con un apprezzabile margine di precisione, a rilevare e a padroneggiare le principali dinamiche di formazione e di gestione del capitale intellettuale.
L’inadeguatezza dei metodi tradizionali deriva da ragioni di carattere “storico”: gli attuali e tradizionali strumenti di valutazione erano stati ideati, spesso secoli fa, quasi agli albori del capitalismo, in un sistema basato su valori tangibili (macchinari, impianti, scorte, semilavorati, ecc.). Erano cioè funzionali a un’economia di tipo sostanzialmente manifatturiero/industriale. Le esigenze di nuove metodologie è cresciuta di pari passo con la terziarizzazione dell’economia occidentale. L’avvento della new economy è stato solo un elemento acceleratore di un bisogno già manifestatosi da qualche decennio. Ma diventa davvero strategico non solo o non tanto strutturare delle definizioni di capitale intellettuale e delle tecniche di rilevazione del suo valore, quanto il poter misurare, nel medio periodo, il ritorno sugli investimenti da esso apportato. La valutazione del capitale intellettuale, cioè, diventa un momento di pianificazione strategica e non solo un momento di valutazione a consuntivo: assume una valenza prospettica e strategica.

 


2. Principali metodi di misurazione degli asset intangibili

Lo studioso K.E. Sveiby ha individuato quattro tipologie di metodi di valutazione del capitale intellettuale:

  1. i metodi “diretti”, che mirano a fornire una stima economica del capitale intellettuale sia nelle sue singole componenti sia nella sua globalità;
  2. i metodi cosiddetti “a capitalizzazione di mercato”, che calcolano la differenza tra valore contabile e capitalizzazione di mercato;
  3. le tecniche che calcolano un ritorno sugli asset tangibili (Roa) in termini di utili e flussi di cassa, in relazione ad indici standardizzati di settore di attività produttiva; per differenza si calcola il Roa degli asset intangibili;
  4. metodi di “score card”, che utilizzano una serie d’indicatori del capitale intellettuale, da tenere sotto osservazione e che producono un indice composto per monitorarne l’aumento o il decremento.

L’adozione di metodi quantitativo-contabili è largamente preferita in caso di operazioni di “Merger & Aquisition” in quanto permette, comunque, di attribuire un valore monetario, agevolando le trattative e la valutazione complessiva aziendale, anche se, come si è detto, presentano limiti di carattere strategico - gestionale.

 


2.1. Market to book value

Esso è concettualmente semplicissimo e, forse proprio per questo motivo, di ampia utilizzazione.
Secondo questo metodo, il valore del capitale intellettuale è dato dalla differenza tra valore di mercato di un’impresa e suo valore contabile. Se un’impresa ha un valore di mercato di 50 miliardi e il suo valore contabile, derivante dal bilancio di esercizio, è 30 miliardi, la differenza, in questo caso 20 miliardi, rappresenta il valore del capitale intellettuale. Tuttavia vi sono una serie di perplessità e di imprecisioni di cui occorre tenere conto.
Innanzitutto, in questo modo, si ottiene una valutazione generale e complessiva del capitale intellettuale, senza alcuna scomposizione o approfondimento delle sue varie componenti. Poi, il valore contabile di una azienda è conseguenza delle politiche fiscali e di bilancio adottate dall’azienda e quindi può variare, modificando, di conseguenza, il valore assegnato al valore di mercato, che invece dipende anche da fattori esogeni, di natura macroeconomica (scenario, andamento e prospettive del settore di attività, concorrenza ecc.) o di natura “psicologica” (aspettative degli investitori, fiducia e disponibilità nei confronti dell’azienda in questione, ecc.).

 


2.2. “Q” di Tobin

Questo metodo è stato elaborato dal premio Nobel per l’economia James Tobin. Inizialmente esso fu predisposto per prevedere e quindi prevenire il comportamento degli investitori. Il “Q” è il rapporto tra il valore di mercato dell’azienda, (dato dal numero di azioni per il prezzo) ed il costo per la sostituzione dei suoi asset tangibili. Un “Q” alto, significa che la differenza positiva di valore risiede proprio nel capitale intellettuale.

 

 

Un valore del “Q” alto significa cioè che l’azienda vale di più del valore dei suoi asset tangibili.
Ma anche questo metodo si presta ad alcune considerazioni critiche: il valore di mercato dell’azienda dipende, come si è detto, anche dal “sentiment” degli operatori finanziari; le oscillazioni del valore di mercato dunque si riflettono anche nella precarietà e mutevolezza del valore conseguentemente assegnato al capitale intellettuale. Vero è, tuttavia, che “Q” di Tobin e il “Market to book value”, se applicati contemporaneamente e ad imprese dello stesso settore, possono essere indicatori estremamente utili della situazione di un’azienda e della sua capacità di attirare e valorizzare i suoi asset non tangibili.

 


2.3. Calculated intangibile value o “Civ”

Il “Civ” è stato predisposto dalla Nei Research per calcolare il valore effettivo dei propri Intangible Assets.
Da un punto di vista metodologico, esso effettua prima il calcolo dell’eccesso di ritorno dell’investimento sugli asset tangibili dell’impresa e poi, da questo valore, arriva al calcolo del valore degli asset intangibili.
Concretamente, il meccanismo di calcolo funziona nel modo seguente.

 

Calculated Intangible Value (CIV): elementi di calcolo

Per il calcolo in ogni step si considerino i valori medi su 3 anni successivi

Vt= Valore Asset Tangibili
ROAs= ROA medio settore
EBIT= Earning Before Interest and Taxes
ROA (Return on Assets)= EBIT/ Vt
EBITs=ROAs*Vt
S (surplus)= EBIT-EBITs
Sint (Surplus intangibile)= S (1-i)
Satt (Surplus attualizzato)= Sint /Costo Capitale
i = % interessi e tasse rispetto all’EBIT
ROA = reddito operativo corrente / totale attività

 
Step di calcolo

Si prendono i dati del profitto medio non tassato e del valore medio degli asset tangibili degli ultimi tre anni; si crea il rapporto tra questi due valori, in maniera tale da ottenere il ritorno sugli investimenti in percentuale; una volta ottenuto il dato del Roa, riferito sempre agli ultimi tre anni, del settore di appartenenza, si può ottenere il calcolo dell’eccesso di ritorno sull’investimento: basta moltiplicare il Roa medio del settore per gli asset tangibili dell’azienda. Il risultato rappresenta quanto un’azienda media guadagnerebbe se avesse quegli asset. Per calcolare il valore del capitale intangibile dell’azienda in questione, occorre sottrarre tale cifra dal profitto medio non tassato degli ultimi tre anni. Ora è necessario calcolare il tasso medio di imposta sul triennio esaminato, per poi applicarlo all’eccesso di ritorno sull’investimento. Tale cifra va sottratta dallo stesso eccesso di ritorno sull’investimento, al fine di ottenere il valore netto delle imposte. Così procedendo si ottiene il valore degli asset intangibili per gli ultimi tre anni. Per trasformare, infine, tale valore nel Net Present Value occorre dividerlo per il costo medio del capitale aziendale. Il dato così ottenuto rappresenta il valore degli asset non presenti nel bilancio tradizionale contabile.
I principali limiti di questa sia pure sofisticata metodologia vanno in realtà ravvisati proprio nell’utilizzo di valori e tassi “medi”, che non tengono conto delle differenze esistenti tra i vari settori merceologici e tra impresa e impresa nell’ambito dello stesso settore merceologico.
Come si è visto, le metodologie proposte ed adottate sono varie e, anzi, in questo lavoro ne sono state accennate solo alcune, tra le più diffuse. Oltre alle tecniche che si traducono alla fine in un indice o in un valore monetario e che quindi potrebbero definirsi “quantitativo-contabili”, esistono infatti altri metodi che derivano da calcoli e valutazioni di ordine qualitativo e non economico (“Balanced Scorecard”, “Approccio per Competenze”, ecc.). Probabilmente nessuna di queste metodologie è veramente esaustiva, riuscendo a cogliere solo parti o aspetti del capitale intellettuale nel suo insieme. Tuttavia essi, proprio per la loro specificità, forniscono informazioni preziose: dunque, a seconda delle esigenze di ciascuna azienda e di ciascun processo di valutazione, si può utilizzare la tecnica più mirata e funzionale al raggiungimento degli obiettivi.

 


3. La classificazione degli asset intangibili

Negli anni Novanta l’esigenza di definire, rilevare e misurare il capitale intellettuale nelle sue varie componenti. si è fatta ancora più pressante, come diretta conseguenza di fenomeni macroeconomici mondiali come la globalizzazione e l’avvento della new economy. C’è stata quindi una velocizzazione degli studi sia accademici sia aziendali, volti ad incrementare il margine di precisione ed oggettività delle metodiche da utilizzare.
Si è passati dalla tradizionale tripartizione degli elementi costitutivi del capitale intellettuale in Ricerca e Sviluppo, Marketing e Formazione, a forme più evolute e sofisticate di categorizzazione, legate soprattutto all’incidenza nella realizzazione delle strategie aziendali di lungo periodo.
Il risultato più importante di questo nuovo filone di studi è sicuramente rappresentato dal modello elaborato da tre esperti di altrettante realtà aziendali molto diverse per natura, nazionalità e settore di attività: Edvinsson della “Skandia”, Onge della “The Mutual Group” e Petrash della “Dow Chemical”. Il modello proposto dai tre viene comunemente definito: “The value platform”. Anch’esso individua tre aree costitutive del capitale intellettuale, che dunque è dato dalla seguente sommatoria:

Capitale intellettuale = Capitale umano + Capitale organizzativo + Capitale cliente.

Forse la prima applicazione concreta di questo modello è stata effettuata intorno al 1994 dalla “Kandia Afs”, una consociata del gruppo svedese Skandia, colosso finanziario ed assicurativo.
Nel 1994, infatti, la “Skandia Afs” ha pubblicato per la prima volta il suo bilancio del capitale intellettuale (“Intellectual Capital Report”). Il Value Scheme proposto considerava il valore di mercato dell’azienda come risultato della sommatoria di Capitale finanziario e Capitale intellettuale.
Quest’ultimo, a sua volta, si ripartiva in Capitale umano e Capitale strutturale. Questo, poi, si divideva in Capitale Cliente e Capitale organizzativo. Il Capitale organizzativo, si ripartiva in Capitale di processo e Capitale di innovazione, a sua volta, infine, suddiviso in Proprietà intellettuale e Asset intangibili.
Vale la pena di citare anche un modello realizzato non da esperti, tecnici o “intellectual capital manager”, ma dalla Confederazione dei sindacati danesi. Esso individua tre categorie fondamentali di conoscenza e, quindi, di capitale intellettuale, applicabili a qualsiasi organizzazione. Queste tre macroaree sono: Persone - Sistema - Mercato.
Item costitutivi della macroarea “Persone” sono: Motivazione, Cultura, Formazione, Sviluppo. Il “Sistema” è costituito da: Patenti, Brevetti, Tecnologia, Organizzazione. Infine il “Mercato” che riguarda, ovviamente, Clienti e Fornitori, Mercato Lavoro e Mercato Capitali.

Una interessante applicazione della formula del capitale intellettuale è sicuramente quella di Roos, che non effettua modifiche alla “value platform” tripartita, ma va ad approfondirla e suddividerla più dettagliatamente.
Le tre componenti del Capitale intellettuale identificate nella formula su esposta sono ulteriormente scomposte in una serie di sottofattori.
Il Capitale umano si concretizza nei seguenti elementi:

  • Motivazione
  • Knowledge
  • Skill
  • Task

Il Capitale cliente è invece costituito da:

  • Customer Relationships
  • Supplier Relationships
  • Network Relationships
  • Investor Relationships

Il Capitale organizzativo si scompone in due sottocategorie: Processi di business e Rinnovamento e Sviluppo. I processi di business riguardano:

  • Informazioni
  • Prodotti e servizi
  • Cash Flow
  • Strategie Aziendali
  • Forme di cooperazione

Rinnovamento e Sviluppo attengono invece a:

  • Specializzazione
  • Processi di produzione
  • Nuovi Concept
  • Sales & Marketing

Dunque i modelli che specificano e personalizzano la Value Platform originaria sono stati numerosi e derivano anche dalle concrete esigenze delle singole realtà in cui sono stati concepiti e maturati. Tuttavia, anche ai fini di riassumere e schematizzare in maniera conclusiva, può essere utile riepilogare i principali elementi costitutivi delle tre componenti del Capitale intellettuale.

  1. Capitale umano
  • Know-how
  • Istruzione
  • Skill
  • Conoscenze legate al lavoro
  • Competenze
  • Diversità culturali
  1. Capitale relazionale
  • Marchi
  • Clienti
  • Customer loyalty
  • Quote di mercato
  • Canali distributivi
  • Joint Venture
  • Partnership
  • Accordi di licenza e di franchising
  1. Capitale organizzativo (nelle due componenti della Proprietà intellettuale e del Capitale infrastrutturale).

Proprietà intellettuale

  • Brevetti
  • Diritti di copyright
  • Diritti di design
  • Segreti commerciali

Capitale infrastrutturale

  • Cultura aziendale
  • Valori aziendali
  • Organizzazione non scritta
  • Processi manageriali
  • Sistemi informativi
  • Relazioni finanziarie
  • Database aziendali
  • Strumenti di vendita

Il passo successivo diventa ora individuare gli indicatori atti a misurare l’andamento e l’evoluzione di ciascuna macroarea e di ciascun suo sotto-fattore.
 

DOI  10.4439/mm5

 

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